Da La Repubblica del 03/06/2003

L’effetto Iraq e la speranza di pace

di Vittorio Zucconi

SHARM EL SHEIKH - LA ruota delle illusioni, chiamiamola pure delle speranze, ricomincia a girare dal punto dove da mezzo secolo si grippa qui in Medio Oriente, da una guerra. Questa volta è stato l’Iraq ed è George Bush a spingerla e sembra sincero, il presidente convertito a quel “grande gioco” della politica estera che fino all’11 settembre aveva guardato con disdegno e sarcasmo: «Andrò fino in fondo, vi prometto che non mollerò, se soltanto vorranno fare qualche passo serio con noi, arriveremo a due stati e due popoli, l’israeliano e il palestinese», aveva detto staccandosi ieri pomeriggio, con la sua solita fretta di correre sempre altrove, lasciando senza grande rimpianto un G8 vuoto che gli aveva dato tutto quello che lui voleva: la fine della velleitaria sedizione europea e addirittura il viatico solenne di Chirac, tornato a essere “Jacques” nei colloqui privati.
«Auguro successo di tutto cuore alla missione del presidente Bush», lo aveva salutato Jacques, ricevendo una pacca sulla spalla.
Da ieri sera, la nostra esausta carovana viaggiante, che arranca per stare dietro al presidente, è scesa dalle Alpi della Alta Savoia dove Chirac aveva nascosto il G8, a quota zero, qui sul Mar Rosso, a Sharm El Sheìkh. Siamo di nuovo in quell’Egitto dove un quarto di secolo fa assistemmo a un giro di quella ruota che vedemmo sbloccarsi a Ismailia, sul Nilo con Sadat e Begin, come poi salutammo l’accordo di Oslo, con titoli, servizi speciali, promesse e strette di mano commosse. E di nuovo qui siamo, sempre al ground zero di una tragedia che ha smesso di contare i suoi morti. Si ritorna al futuro, con Bush che ironizzava sulle smanie diplomatiche di Clinton, prima che l’11 settembre e poi le guerre di ritorsione in Afghanistan e in Iraq lo trascinassero inesorabilmente dove ogni presidente della potenza cardine del mondo è costretto a stare da mezzo secolo.
E un ritorno al futuro che si è cercato promettendoci solennemente che l’invasione dell’Iraq sarebbe stata la leva magica per abbattere il terrorismo globale e per smuovere la ruota della pace tra ebrei e palestinesi. Anche le bugie raccontate come pretesto per rimuovere Saddam senza dire chiaro che quello, e non le armi introvabili, era l’obbiettivo vero, diventerebbero tutte benedette, se Bagdad fosse davvero stata il motore della storia buona.
Ma la piaggeria degli europei vassalli e l’omaggio concesso “obtorto collo” dai francesi e dai tedeschi a Evian si ritorcerebbero ferocemente contro Bush, se questi gesti e questa corsa verso il Mar Rosso fossero soltanto una sceneggiata crudele, destinata a durare fino alle elezioni presidenziali del prossimo anno. Il giudizio dell’Europa reale su Bush resta ancora sospeso, se non negativo. Per questo, qui nel nostro “flying circus”, nella nostra corte volante che sta inseguendo Bush attraverso nazioni, continenti e fusi orari come se il tempo gli scappasse di màno, nessuno, neppure Condi Rice che pure si dice «ottimista», immagina o racconta che dalle due giornate di “impegno” con il problema palestinese possa uscire più di un commitment la promessa di qualche small step, passettino. “Commitment”, cioè “impegno serio e concreto”, a camminare sulla carta stradale tracciata insieme da Unione Europea, Russia e Usa che in 3 anni dovrebbe portare a una prima definizione di due popoli e due stati.
Bush è qui per ottenere da quei leader arabi cosiddetti moderati, l’impegno a non fomentare, dietro le parole di pace, un conflitto che ha sempre fatto molto comodo a chi ha prosperato e costruito il potere sulla instabilità sanguinosa della regione è sull’odio per gli ebrei “usurpatori”. La tesi centrale della strategia di Bush è che non c’è terrorismo palestinese senza la complicità di altre nazioni arabe e neppure le migliori intenzioni dei nuovi leader, di quel premier imposto proprio da Washington invece di Arafat, servono, se non si tagliano i fili dei burattinai.
Il presidente frettoloso ha dunque una sola, vera carta nuova da giocare, rispetto ai suoi predecessori che sono andati a insabbiarsi qui, lasciando la ruota della pace immobile. Ha dalla sua “l’effetto Iraq”, la dimostrazione che egli non esiterebbe a impiegare il massimo della forza, perché a Washington la “sindrome del Vietnam” è davvero finita e al suo posto si alza la “sindrome Iraq”, una, due, tante possibili guerre preventive. Questo sarà detto oggi a Mubarak, presidente egiziano, all’eterno “principe ereditario” saudita Abdullah, al re di Giordania Abdallah figlio del sempre compianto Hussein e allo sceicco del Bahrain Hamad. E sarà ripetuto nei due incontri separati di domani, prima con Sharon e poi con Mahmud Abbas, o Abu Mazen suo nome di combattimento, per domandare i primi passi seri e “tangibili”, come lo smantellamento di qualche insediamento israeliano nei luoghi più fertili e quindi più offensivi del territorio palestinese e l’arresto di organizzatori del terrorismo e lo scioglimento di Hamas.
La paura frammista all’odio intenso per Bush nel mondo arabo è la “leva cattiva” che questa America impugna, dopo avere tentato per decenni e invano di convincere con le buone. I fan di Bush sostengono che questo presidente finora non abbia sbagliato una mossa e sia anche lui un ”vincente”, come vuole la nuova retorica politica dominante, uno al quale vanno tutte bene. E’ vero, ma finora è stato avvantaggiato dalle scarse aspettative, se non dalla sfiducia completa che avevano accompagnato j suoi primi interventi in politica internazionale. Ma da ieri sera, nella sua prima notte in Arabia, il gioco s’inverte, le aspettative sono contro di lui. Si capisce il perché di tanta fretta nell’attraversare l’Europa, per correre qui, dove tutte le “carte stradali” della storia conducono i presidenti americani.

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