Da La Repubblica del 05/06/2003

Il ponte costruito dal presidente Usa

di Vittorio Zucconi

AQABA – ANCHE lui, come tutti noi che lo ascoltavamo parlare ricordando i deserti di promesse insabbiate, sembrava aver paura di credere alle parole che stava pronunciando e ascoltando. Pace in Palestina? Due Stati sovrani e vitali? La «Terrasanta da condividere tra ebrei e arabi?». Era serio, solenne e teso, George Bush in mezzo ai vecchi gatti e alle vecchie volpi della tragica fiaba mediorientale, sistemati in piedi su sgabelli di altezze diverse dietro i leggii per sembrare tutti uguali in tv. Ascoltava Sharon, il più esecrato e odiato in Palestina dei leader israeliani ammettere chiaro e tondo il diritto a uno Stato palestinese. Poi guardava il nuovo premier eletto (e imposto), Abbas, per sostituire Arafat implorare la fine delle «sofferenze degli ebrei e rinunciare a ogni forma di terrorismo e di Intifada, di ribellione armata».

E poi doveva dire lui stesso che si sarebbe impegnato per ottenere quello che nessuno dei suoi predecessori ha mai ottenuto, una pace giusta in Terrasanta. Che sarebbe stato, lo dirà più tardi sull'Air Force One, «the herd rider», letteralmente "il mandriano", il buon pastore che guida la mandria riottosa verso la pace.

Se George suo padre e soprattutto Barbara, la madre che fino a 40 anni lo avevano giudicato la pecora smarrita della dinastia Bush, lo hanno guardato indiretta tv dalla loro casa Houston, avrebbero potuto ben essere orgogliosi di lui e forse, nel padre, anche un poco invidiosi. Perché George il Giovane ha fatto quello che neppure il padre era mai riuscito a fare, la pace tra ebrei e palestinesi, il reciproco riconoscimento, la «creazione di un primo grado di fiducia tra loro» come lo ha descritto Colin Powell. «Ho ascoltato cose sbalorditive oggi» confiderà rilassandosi con una Diet Coke «ho sentito palestinesi parlare delle sofferenze degli ebrei e rinunciare senza condizioni al terrorismo e gli ebrei parlare di Stato palestinese. E se vacilleranno io sono qui per pungolarli, per controllare quello che fanno, per essere il mandriano». Bush ha fatto la pace tra ebrei e arabi. A parole. Nei fatti, tutto resta ancora da dimostrare.

Ha ragione il giovane re di Giordania Abdallah, che aveva parlato per primo e dallo sgabellino più alto essendo quello più coraggioso di tutti, ma più modesto di statura, quando ha detto, come sovrano ospitante, che decenni di false speranze e di tremende delusioni hanno lasciato «una coda di scetticismo e di amarezza» e servirà ben altro di uno show politico televisivo per cancellarli. E anche George il Giovane ha messo in guardia dagli «assassini che sono ancora in zona», pronti a rovinare i piani. Noi tutti che abbiamo seguito la stella cometa di Bush attraversare di corsa l'Est e l'Ovest fino ad arrivare nel Vicino oriente siamo attratti dallo scetticismo e dal timore di credere nella visione che Bush, e Sharon e Abu Mazen (come preferiscono chiamarlo gli israeliani) o Mahmud Abbas (come lo chiamano gli americani, perché neppure sui nomi qui è facile accordarsi) hanno proiettato con i loro gesti e le loro parole sullo schermo del Golfo di Aqaba. Se questi tre uomini fossero davvero pronti a fare la metà di quello che hanno promesso, semplicemente ammettere che ebrei e arabi sono condannati a vivere fianco a fianco in pace e in reciproco rispetto, che sono convinti della necessità di spegnere l'interruttore della propaganda alla violenza antisemita e di ritirare i carri armati e coloni da terre che non appartengono agli israeliani, da questa mattina – mentre Bush già è lontano, in Qatar, perché fermarsi e riposare un poco per lui deve apparire un peccato satanico – la dinamica della pace comincerebbe.

Ma le suggestioni infinite dei luoghi, il Golfo di Aqaba, i colori, la serenità di questa baia di e questo braccio stretto di acque (27 chilometri di larghezza massima) diviso tra giordani e israeliani in pace dal 1995 con le loro due cittadine fianco a fianco, Aqaba ed Eliat, non possono far dimenticare la memoria dolorosa di altre facili allegorie di pace.

Dietro le sagome di quei personaggi che si stringevano la mano, dopo essere scesi dai loro sgabellini, si intravedeva l'abbraccio tra Sadat e Begin a Gerusalemme e poi sul Nilo, a Ismalia, che vedemmo nel 1978, le mani di Rabin e di Arafat che attraversano lo spazio infinito di pochi centimetri per stringersele sotto lo sguardo di Clinton sullo sfondo della Casa Bianca, la solenne rinuncia al terrorismo fatta dal parlamento palestinese, tutti i rottami – o forse i gradini – di una Via Crucis che neppure Bush, che si immagina come il Buon Pastore della nuova parabola, nel suo ottimismo, post-bellico e pre-elettorale, può immaginare finita.

La scenografia, e la coreografia, possono dire molte cose. I registi, compreso lo stratega elettorale, Karl Rove, che Bush si è portato al seguito, hanno lavorato bene. Lo staff aveva costretto i giordani, ospiti di questo «vertice sul Mar Rosso» come lo hanno subito intitolato per le tv, a costruire un ponticello di legno posticcio su un laghetto nel palazzo reale di Bait al Bahar per mostrare l'attraversamento simbolico delle acque da parte di Bush e dei due premier. Bush stesso si era fatto riprendere mentre faceva da maître d'hotel, facendo entrare e passare per primi, con grande sfoggio di premura, Sharon e Abbas/Mazen nel palazzo e poi, nel volo verso il Comando centrale di Doha, nel Qatar, aveva fatto quello che non fa mai, aveva parlato per 45 minuti, per fugare lo scetticismo che già si cominciava a richiudere, dopo il passaggio del "Buon Pastore" americano.

Ma parlano forte anche le cose non dette, in questa ennesima alba di speranze, nel solito «buon inizio» o «primo passo». Sono eloquenti i silenzi di Sharon sugli insediamenti, mentre concede soltanto lo smantellamento degli outposts, gli «avamposti illegali», cosa diversa. E racconta una verità stridula anche l'assenza del "fantasma", del vecchio Arafat, il morto al tavolo dei poker dei bugiardi, che nessuno ha mai neppure nominato in tutta la giornata di Aqaba («Colin, lo hai sentito nominare? Io no, mai, e tu, no, vero?» ha chiesto Bush a Powell) ma che pesa come una storia ignorata ma non digerita dai soli che dovrebbe decidere davvero se il suo tempo è finito, cioè i palestinesi. «E' un progresso» ci ripeteva Bush. La sola certezza è che una volta ancora è stata una guerra, quella in Iraq, a comperare con un litro di sangue una goccia di pace, come è sempre accaduto qui.

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