Da Il Messaggero del 19/06/2003

Reportage/ Viaggio nel disastro di un Paese decimato dall’Aids. E dove le cure costano troppo.

Dalla Comunità di S. Egidio un piano per sottrarsi alle multinazionali dei farmaci

di Ugo Cubeddu

Maputo: Una famiglia, cinque sorelle e due fratelli, il padre che lavora lontano dalla città e che vedono solo alla domenica. Una casa... No, forse non si può davvero chiamarla casa. Piuttosto baracca, col tetto in lamiera e le pareti di mattoni di cemento con una mano scrostata di bianco sporco. Intendiamoci, niente di strano qui, nel quartiere di Infulene, alla periferia della città, dove acqua e luce sono un lusso e il degrado mette i brividi. Lei, Honoria, è una bella ragazza. Alta, dolce, con quei liquidi occhi marroni che sono sempre in agitazione. «La vuoi davvero sentire la mia storia? Non è bella, anche se adesso va meglio. Mi sono sposata che avevo 22 anni e all'inizio sembrava che tutto andasse bene. Ho avuto una bambina, era bellissima, ma poi a sei mesi è morta lasciandomi piena di male. Pian piano ho cominciato a sentirmi sempre stanca. Non ce la facevo a lavorare, mi buttavo sul letto e stavo lì, per ore, con una tosse che non passava mai. Sono andata in ospedale e mi hanno detto che avevo la tubercolosi e mi hanno ricoverata. Era il 2001, in febbraio. Mi hanno fatto il test e mi hanno detto che ero sieropositiva. Andava tutto sempre peggio. Mio marito, appena lo ha saputo è scomparso di casa e non si è mai fatto più vedere, io sono una ragazza onesta, forse è lui che mi ha dato l'Aids. In ospedale mi davano le cure, ma non servivano a niente e da 60 chili sono arrivata a 35. Poi quelli del Centro di Santo Egidio mi hanno detto che loro potevano curarmi con una medicina speciale e ho detto di sì, che volevo provare. Una signora mi ha spiegato tutto, ma forse allora non capivo tutto, sentivo solo che stavo morendo. Così ho sempre preso le medicine e ho cominciato a stare meglio, a riprendere il mio peso. Mi hanno detto che adesso ho una vita davanti, che non muoio di Aids, anche se devo stare sempre attenta. Non so cosa farò, troverò una soluzione, un lavoro, qualcosa. Magari aiuto quelle come me. Io gli posso spiegare tante cose. Visto? Te l'ho detto che non era una bella storia». Scappa via, vergognandosi un po'. Ci sono tante, troppe Honoria qui in Mozambico e ogni cosa che si tenta di fare incontra difficoltà spaventose. Perché l'acqua è un problema, lo è il caldo e il freddo, l'igiene anche minima, i rifiuti, quegli otto dollari che la Sanità pubblica riesce a spendere per ciascuno in un anno, i lavori che non si trovano, le malattie, la lunga, pesante eredità di una guerra interna durata 20 anni. Dieci anni fa si era arrivati a fatica alla pace (firmata a Roma), tra Frelimo e Renamo e il paese aveva ricominciato a dare segni di vita, a cercare di rimettere insieme i pezzi di una distruzione cui hanno partecipato, con armi e soldi, Stati Uniti e Europa. Andati via tutti perché proprio la pace aveva azzerato gli interessi politici, sono rimaste una economia disastrata e 2 milioni di mine sparse dappertutto. Pian piano l'economia aveva cominciato a dare segni di ripresa, anche se con enorme fatica e pochi risultati, ma qualcosa si cominciava a vedere, al punto che si parlava perfino di turismo nei due grandi parchi a nord e a sud del paese. Con un piccolo problema in più: i venti anni di guerra avevano provocato la morte di centinaia di migliaia di animali e quindi bisognava ripopolare, con soldi che non c'erano, i due parchi. Poi nel 2001 l'ennesimo disastro: due tifoni devastano il sud del paese, con milioni di senzatetto e la distruzione di quel poco che c'era, quindi anche in questo caso bisogna ricominciare tutto daccapo. E l'Aids. La grande peste dell'Africa che pesa 22 milioni di morti l'anno, che investe in paesi come il Sudafrica o il Botswana il 33 per cento della popolazione. Giri, e ti rendi conto che è dappertutto, che devasta speranze e possibilità, che si nutre della povertà, del sottosviluppo, della corruzione di tanti Governi. Non è vistosa come la guerra, ma è mille volte più insidiosa perché spesso, non si riesce neppure a capire che è Aids, ma specie nei villaggi, viene scambiata per qualche misterioso male che neppure i curanderos, gli stregoni, riescono a guarire. Ancora una donna, Mulele Jhayr, 19 anni, di Cahora. «Ho cominciato con una ferita alla mano che non riusciva a guarire. Nel villaggio siamo circa cento persone. Il nostro curandero ha dato delle erbe e delle medicine a me e mio marito. Ci eravamo sposati un anno prima, quando lui era tornato dal Sudafrica. Non mi aveva detto che era malato o perché anche lui continuava a dimagrire, ma eravamo contenti insieme. Il curandero ci rimproverava, diceva che noi non volevamo le sue medicine e spesso ci obbligava a prenderle davanti a tutto il villaggio. Ma stavamo male lo stesso, non succedeva niente. Un giorno è venuta una donna che era stata in città e ci ha detto che lì c’era un posto dove curavano la gente. Mia madre si è molto arrabbiata quando le ho detto che volevamo andare lì, ma io ci sono andata e mi hanno spiegato che avevo l’Aids, ma che loro non avevano le medicine. Sono tornata al villaggio e mio marito era scappato per la vergogna e nessuno mi voleva. Così sono andata ancora all’ospedale. Forse mi cureranno, forse no, ma non mi importa molto di morire». In Mozambico su 20 milioni di abitanti l’Aids ne uccide 3. Li uccide per questioni di soldi (ancora loro, i soldi), per dirla chiara. Conti banali in apparenza. Una cura per l'Aids costa, in Europa o in America, 15 mila euro. Qui, con un reddito medio di 120 euro l'anno, ci vorrebbero 125 anni per pagarsela, ammesso che ci fossero le strutture. Visto che nessuno regala niente, le strutture, che costano, non ci sono. Un modo per dire che non si può fare altro che morire di Aids. Così il serpente si morde la coda: ci vorrebbero cure per quei tre milioni di sieropositivi, ma i farmaci costano tantissimo perché sono coperti dai brevetti (cui le grandi case farmaceutiche non vogliono rinunciare) e quindi si muore di Aids. Ci sono molte organizzazioni governative che, ognuna a modo proprio, cercano di fronteggiare questa situazione, ma manca un impegno coordinato, manca soprattutto l'interesse dei paesi ricchi a cercare di dare una svolta. Così ci si arrangia come si può. Il progetto Dream della Comunità di Sant'Egidio che comincia a dare i primi risultati concreti, ha probabilmente trovato una possibile “alternativa africana”: strutture di qualità ridotte all'essenziale, volontariato, contatto stretto con le strutture statali. Utilizzando le cosiddette medicine parallele, copiate cioè senza pagare le royalties alle case farmaceutiche e prodotte ad esempio dall'India che le vende a prezzi completamente diversi, pur essendo le stesse utilizzate nel nord del mondo. Risultato, il prezzo di una cura precipita a 500 euro l'anno per malato. Un mercato precario, però, che non dà quella garanzia di continuità che la cura dovrebbe avere. Basta che una di queste nazioni produttrici sia messa nella condizione di chiudere le fabbriche o di dover pagare le royalties, che salta tutto il sistema e la gente quella poca che ha una speranza di salvezza ricomincia a morire come prima. Anche se uno spiraglio potrebbe esserci e neppure forse troppo lontano. Due multinazionali farmaceutiche, la Glaxo e la Boehringer, stanno esaminando con la Comunità, con lo Spallanzani e con il Ministero della Sanità, la possibilità di fornire qui medicinali a prezzo “politico”. E allora Dream potrebbe davvero cominciare a decollare su numeri più importanti estendendo la formula anche ad altri paesi. Potrebbe. Perché se non si fa davvero in fretta, fra dieci anni, quando forse arriverà il vaccino, la strage sarà compiuta.

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