Da La Repubblica del 10/08/2003

L'operazione di Monrovia è un successo degli Usa, ma resta l'ombra dell'impunità giuridica

Una regia tutta americana per l'ultimo atto del tiranno

di Pietro Veronese

L'AFRICA si è liberata di Charles Taylor, un leader che ha procurato al suo Paese, la Liberia, lutti infiniti e che faceva vergogna al continente intero. Taylor era infatti la dimostrazione incarnata della tesi razzista secondo la quale gli africani sono incapaci di governarsi da sé senza indulgere a una politica di rapina e disprezzo degli esseri umani. Il suo allontanamento dal potere è dunque un avvenimento da salutare con gioia: così puntualmente hanno fatto i suoi nemici, che hanno ballato ubriachi sul New Bridge di Monrovia, la linea che separa le forze in campo, e anche i suoi sudditi nei quartieri della capitale ancora controllati dalle bande governative.

L'improvvisa partenza del presidente liberiano ha colto in qualche modo di sorpresa, perché la situazione a Monrovia sembrava bloccata malgrado l'arrivo dei primi soldati della forza internazionale di pace, di nazionalità nigeriana. La soluzione tutto sommato incruenta – specie se raffrontata ai terribili ultimi 15 anni di guerra civile in Liberia – è certamente il frutto di una trattativa serrata durata settimane, che ha avuto per snodo centrale l'ambasciata americana a Mamba Point, il quartiere residenziale di Monrovia dal quale la vista domina l'Oceano Atlantico e le tragiche vicende interne liberiane. Gli americani, da sempre potenza di riferimento per questo piccolo Paese che fu fondato alla metà dell'Ottocento da schiavi liberati negli Stati Uniti, sono stati i registi di questo gran finale che mette infine Charles Taylor fuori combattimento.

A prima vista, la soluzione della crisi liberiana è una soluzione africana. Africani sono i soldati che hanno preso terra a Monrovia, aspettando di estendere il loro controllo alla zona del porto (ancora tenuta dai ribelli del Lurd) e dunque di riaprire la strada agli aiuti alimentari e sanitari di cui la popolazione ha disperato bisogno. Africano è il Paese che accoglierà Taylor in esilio, la Nigeria: un esilio dorato, certo, ma che significa comunque la perdita del potere. Africani i leader che sono stati presenti alla cerimonia di commiato: il sudafricano Mbeki, il mozambicano Chissano (presidente di turno dell'Unione africana), il ghanese Kufuor (che presiede la Comunità degli Stati dell'Africa occidentale).

Dietro le quinte, tuttavia, sono gli Stati Uniti a guidare la danza. Sudafrica e Nigeria sono i due Paesi scelti dall'amministrazione Bush come potenze regionali e garanti dell'ordine continentale (sono i due più importanti tra i cinque che il presidente Usa ha visitato il mese scorso). Sono da sempre il big brother che vigila sulla Liberia, dove del resto hanno consentito atroci violazioni dei diritti umani finché queste non hanno messo in discussione i loro interessi. E sono stati loro a dare a Charles Taylor l'ultimatum che ieri ha infine sortito il suo effetto. II fatto che abbiano ottenuto la partenza del leader liberiano senza schierare un solo soldato, ma solo inviando tre navi da guerra a incrociare allargo di Monrovia, non dimostra la loro scarsa volontà di lasciarsi coinvolgere nella tragica vicenda liberiana bensì, al contrario, dà la misura della loro forza.

La partenza di Charles Taylor da Monrovia a bordo di un jet nigeriano è dunque tale da causare la soddisfazione generale. Dei liberiani, i quali giustamente vedono in lui la causa di tutti i loro mali recenti; ma anche dello stesso Taylor, che se ne va definendosi «agnello sacrificale, e salvando al contempo le ricchezze personali accumulate in quindici annidi sanguinosi traffici di diamanti, armi e legname. Dei maggiori leader africani, cui gli americani hanno lasciato tutto intero il proscenio; ma anche degli Stati Uniti, i quali riescono a chiudere senza colpo ferire una crisi che due anni fa sarebbe magari passata inosservata (la guerra civile dura di fatto dal 1989), ma dopo un biennio di interventismo globale era un'onta per la potenza americana. Infine anche delle Nazioni Unite, costrette ancora una volta all'impotenza finché il confitto fosse continuato nell'indifferenza internazionale.

Nessun perdente allora? Uno sicuramente: la giustizia. Ancora una volta un leader africano colpevole di spaventevoli crimini ottiene l'impunità. Invano il tribunale internazionale che siede a Freetown, in Sierra Leone, ha emesso contro Taylor un mandato di cattura internazionale accusandolo di crimini di guerra. Il presidente nigeriano Obasanjo ha detto chiaro e tondo che Taylor sarà ospite del suo Paese e non correrà pericolo di essere arrestato finché si troverà all'interno dei suoi confini. In queste stesse settimane altri due grandi criminali politici africani sono riusciti a farla franca: l'ugandese Amin Dada, che agonizza nel suo letto in Arabia Saudita, e il sierraleonese Foday Sankoh, grande coimputato insieme a Taylor, il quale è morto prima di dover affrontare il processo. Uomini ai quali sono direttamente imputabili le morti di centinaia di migliaia di persone e che non hanno mai dovuto affrontare alcuna giustizia terrena.

Se l'impunità di Charles Taylor servirà a porre fine alle sofferenze dei liberiani, alle decine di migliaia di morti, ai milioni di profughi, se metterà fine al terrore che da quindici anni è l'unica legge di quel martoriato paese, se consentirà di avviare una qualche ricostruzione guidata dalle organizzazioni internazionali e a restituire alla Liberia una speranza di vita, allora è un piccolo prezzo pagato. Ma finché l'Africa non vedrà uno dei suoi troppi tiranni giudicato e condannato sotto gli occhi del mondo per i suoi crimini, ci sarà sempre qualcuno che si prepara nell'ombra a seguirne l'esempio.

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