Da Corriere della Sera del 13/11/2003

Ma il ritiro Usa porterebbe caos

di Sergio Romano

Non conosciamo il volto della resistenza irachena, ma conosciamo perfettamente la sua strategia. I terroristi e i feddayn sanno di non poter battere gli americani sul campo, ma sperano di raggiungere due obiettivi. In primo luogo vogliono fiaccare la loro volontà, indurre nelle truppe e nei loro comandanti un sentimento di rabbia, paura, frustrazione e impotenza. Se i soldati, come accadde in Vietnam, reagiranno duramente con operazioni di rappresaglia contro le popolazioni civili, tanto meglio. Per gli strateghi della resistenza irachena, le rappresaglie e le razzie sono il «concime» della guerra partigiana, il boomerang che si ritorce, generalmente, contro colui che se ne serve. Il secondo obiettivo è più ambizioso. Gli attacchi, anche se apparentemente casuali, hanno un senso. Le bombe che colpiscono la «zona verde» di Bagdad (il quartier generale delle forze americane), l’albergo Al Rashid, la sede della Croce Rossa, i commissariati della polizia irachena o, come è accaduto ieri, il comando della polizia militare italiana a Nassiriya, vogliono dimostrare che le forze degli Stati Uniti e quelle dei Paesi alleati non controllano il territorio e non possono proteggere né se stesse né i loro collaboratori iracheni.

Se l’Iraq è incontrollabile e neppure la maggiore potenza del mondo riesce a garantire la sicurezza dei suoi abitanti, parlare di democrazia, costituzione, elezioni e ricostruzione economica diventa una divagazione retorica, priva di qualsiasi rilevanza pratica. Come sperare che una larga parte della popolazione collabori con le forze occupanti quando la collaborazione è punita con la morte? Come votare in un Paese in cui molti elettori, il giorno delle elezioni, rifiuteranno di andare alle urne? Come assistere le popolazioni se i volontari sono trattati come nemici e presi di mira senza pietà? Come investire denaro in opere pubbliche se nessuno può promettere alle aziende straniere che i cantieri non verranno attaccati, i tecnici uccisi e i trasporti dei materiali necessari non saranno assaliti lungo la strada? Un giornale americano raccontava nei giorni scorsi la storia di un imprenditore iracheno, specializzato nella costruzione di blocchi di cemento per la difesa delle postazioni americane, il quale contemplava desolato il suo magazzino pieno di materiali che i camionisti, per paura degli attacchi terroristici, rifiutavano di consegnare. Quella storia rischia di essere la prefigurazione di ciò che potrebbe accadere in Iraq, su più vasta scala, durante i grandi lavori per la ricostruzione delle infrastrutture distrutte.

In altre due circostanze (Libano e Somalia) gli americani decisero di chiudere la partita e riportare i ragazzi a casa. Ronald Reagan ritirò i marines da Beirut quando un camion carico di dinamite, nell’ottobre del 1983, piombò sulla loro caserma e uccise 241 soldati. Bill Clinton ritirò il corpo di spedizione dalla Somalia quando gli uomini di Mohammed Aidid, nell’ottobre di dieci anni dopo, distrussero cinque elicotteri americani, uccisero 18 ranger, ne ferirono 78 e s’impadronirono di numerosi prigionieri. Ma queste scelte, che molti allora giudicarono inopportune e frettolose, sono oggi impossibili. Per Reagan e Clinton il Libano e la Somalia erano impegni «minori», presi nell’ambito di una iniziativa internazionale benedetta dalla comunità internazionale in cui non erano in gioco gli interessi degli Stati Uniti. Per Bush, invece, quella irachena è una guerra sacrosanta, tappa decisiva per due obiettivi che l’amministrazione americana considera necessari al futuro degli Stati Uniti: la lotta contro il terrorismo e la democratizzazione del Medio Oriente. Se il presidente imitasse i suoi predecessori sconfesserebbe se stesso e si esporrebbe, nelle prossime elezioni presidenziali, alle devastanti critiche del candidato democratico.

Gli rimane, in teoria, una terza scelta: quella adottata da Henry Kissinger e Richard Nixon in Vietnam negli anni Settanta. Quando si accorsero che il prezzo della vittoria era troppo alto, il presidente e il suo principale collaboratore decisero di «vietnamizzare» il conflitto e di uscire il più dignitosamente possibile dalla porta di servizio. Saigon cadde nelle mani dei Vietcong, ma due anni dopo, quando il ritiro delle truppe combattenti era ormai una «missione compiuta». È questa probabilmente la soluzione a cui pensano molti esponenti della amministrazione Bush allorché premono impazientemente sul Consiglio provvisorio di governo perché si accordi su un calendario costituzionale e raddoppiano gli sforzi per creare un esercito e un’amministrazione iracheni a cui affidare il Paese. Ma in Vietnam esisteva un governo del sud che poté resistere per un paio d’anni e dette agli americani la possibilità di abbandonare il palcoscenico. In Iraq non esiste nulla, e il Paese, dopo il ritiro degli americani, precipiterebbe immediatamente nel caos. La vietnamizzazione finì male, ma poté essere presentata, per qualche tempo, come un’operazione riuscita. La «irachizzazione» apparirebbe subito per ciò che è: una disfatta.

Resta l’evidente disagio degli altri Paesi che hanno truppe in Iraq, fra cui in particolare la Gran Bretagna, l’Italia, la Spagna, la Polonia. Non possono andarsene perché il loro gesto sarebbe poco decoroso e verrebbe interpretato dall’America come un tradimento. Ma cominciano a chiedersi se il loro alleato abbia quella che viene chiamata nel gergo politico degli Stati Uniti una «exit strategy», vale a dire qualche idea sul modo in cui chiudere la partita. Pagano così, con la loro impotenza, il prezzo di una partecipazione «in ordine sparso» che ha drasticamente ridotto l’influenza e il potere contrattuale dell’Europa nella vicenda irachena.

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