Da Il Mattino del 15/12/2003

Una vita da despota, otto mesi da ricercato

di Vittorio Dell'Uva

È un Saddam sconosciuto quello che l’operazione «Alba Rossa» ha consegnato, dalle parti di Tikrit, agli esultanti uomini di Bush. «Appare stanco e rassegnato», ha detto di lui il generale Ricardo Sanchez, capo delle forze americane in Iraq. «Collabora», gli hanno fatto eco i soliti bene informati, che sperano di strappargli segreti che non sono riusciti a svelare da soli. Ma guardando le immagini del raìs prigioniero e sconfitto, che si tocca la folta barba scoprendo l’inutilità di un travestimento da teatro di periferia, viene da pensare a un uomo soprattutto incredulo di fronte al proprio destino. E che ha lasciato, senza scomporsi troppo, che lo prendessero vivo dopo avere chiesto ad altri di imboccare la via del martirio.

Al dittatore che aveva disseminato l’Iraq di palazzi presidenziali, impreziositi da marmi ed intarsi in nome di una grandeur personale, non era rimasto come rifugio che uno scantinato, a ridosso di un deposito di frutta e verdura. Nulla di glorioso ha segnato il giorno della sua definitiva sepoltura politica. Poco lascia in eredità ai fedelissimi che ancora in qualche misura credevano in lui quando prometteva che con il tempo sarebbe riuscito a spezzare le reni all’America. I filmati che mostrano i vetrini che gli esplorano la bocca, così come si usa quando si valuta la dentatura di un cavallo, vanno ben oltre la simbolica caduta del regime, segnata il 9 aprile scorso dall’abbattimento delle statue. Da ieri nessuno tra gli iracheni può avere più fiducia o paura dell’uomo che aveva affidato al terrore e alla polizia segreta il proprio potere e sul quale per qualche anno alcuni Paesi dell’Occidente, e soprattutto gli Stati Uniti, in nome della realpolitik, avevano scommesso prima di decidere di classificarlo tra i grandi tiranni della Terra, da abbattere.

Scompare, con la cattura di ieri, il punto di aggregazione politica di quanti si erano riconosciuti nel regime e con esso erano andati, felicemente, all’ingrasso lungo la strada della corruzione. Oltre trent’anni di potere reale avevano fatto di Saddam Hussein un padre-padrone. L’eliminazione fisica degli avversari politici e le campagne sfociate nel genocidio prima dei curdi e poi dei gruppi sciiti, avevano formalizzato la supremazia della violenza in una società, come quella irachena, sulla quale non aveva mai soffiato il vento della democrazia al di là della nascita di qualche ininfluente struttura formale. Un lungo cammino era stato percorso inseguendo il sogno di una leadership araba all’insegna del laicismo, e come tale considerata persino affidabile, nel momento in cui il mondo occidentale cominciava a temere l’avanzata del fondamemtalismo islamico.

Mai, peraltro, i principi etici e morali avevano costituito un ostacolo nella conquista e il consolidamento del potere. Già nel 1959, da emergente del partito Baath, Saddam Hussein aveva partecipato, guadagandosi una condanna a morte, a un tentativo di colpo di Stato contro il generale Qassim che aveva instaurato una dittatura militare. Ad un golpe, che lo vedrà protagonista dalle mani insaguinate e che nel ’67 porterà il partito Baath al potere, si deve il suo ingresso nel circolo ristretto del potere e la progressiva liquidazione di potenziali concorrenti. Nel 1979 è presidente della Repubblica, del Consiglio del comando della rivoluzione, comandante delle forze armate e segretario generale del Baath. Nei fatti l’Iraq è il suo dominio. Da «normalizzare». Come dimostra la denuncia di un «complotto antiracheno» che porta a morte sessantatre figure di primo piano del governo e del partito che potrebbero ostacolare la nascita della dittatura. Da Tikrit, la sua città natale, arriva subito e convinto l’appoggio interessato del clan di famiglia.

Sono gli anni in cui la rivoluzione khomeinista offre all’Iraq l’opportunità di attribuirsi il ruolo di baluardo laico di fronte alla avanzata del fondamentalismo. Saddam, che ha avviato la modernizzazione del Paese, strizza l’occhio all’Occidente che apprezza e collabora. Non poche armi fornite dagli Stati Uniti cominciano a riempire gli arsenali iracheni. A Washington, che ha appena perduto il bastione iraniano, il raìs sembra offrire la prospettiva di una vittoria lampo che dovrebbe piegare l’espansionismo ideologico di Teheran. «Gli occidentali non potrebbero sopportare la morte di diecimila uomini in un solo giorno», si vanta Saddam nel dichiarare, nel settembre dell’80, una guerra che conduce anche conto terzi. I morti per la verità saranno più di un milione e il conflitto dello Shatt el Arab durerà otto anni, ma avere provato a fermare il contagio fondamentalista, sia pure ad un prezzo altissimo, rende molto in termini politici a Baghdad le cui colpe vengono rapidamente emendate. Le prime armi chimiche di distruzione di massa raggiungono l’Iraq, attraverso le basi Usa in Germania, e del loro utilizzo in pochi si scandalizzano. Anche quando verranno messe in campo per le vendette. Una rivolta curda nel 1988, ad Halabjia, viene domata irrorando iprite e cianuro Sarin. I morti, da contare, in un solo giorno sono quattromila. La caccia ad agenti iraniani «infiltrati» diventa persecuzione e massacro per alcune comunità sciite irachene, i cui ayatollah vengono dalle scuole coraniche di Teheran.

Ci sarebbe più di un motivo per diffidare di Saddam, ma dall’Occidente arrivano ancora miliardi attraverso la Bnl di Atlanta, utili a ripianare in parte il deficit accumulato con le spese delle guerra all’Iran. Non un solo monito raggiunge il raìs che anzi si sente incoraggiato a osare ancora puntando alla conquista del Kuwait.

Indicativo è l’incontro che avrà il 25 luglio del 1990 con la signora April Glaspie, ambasciatrice americana a Baghdad, che in un suo rapporto sottolineerà: «Saddam Hussein ricorda che ha combattuto una guerra all’Iran anche per conto dell’America». Ma c’è anche una osservazione più inquietante: «Ho riferito che gli Usa non hanno una opinione sui conflitti inter-arabi, come la disputa di frontiera Iraq-Kuwait». Per il dittatore, tanto distacco appare come un nulla osta a invadere il vicino emirato e a impossessarsi dei giacimenti di petrolio. Le operazioni militari cominciano, non a caso, appena sette giorni più tardi.

È la fine di un feeling ambiguo con gli Stati Uniti, che guideranno la coalizione di più di trenta Paesi che il 17 gennaio del 1991 lancerà l’operazione «Desert storm» per la liberazione del Kuwait. Ma per quanto le truppe irachene vengano ricacciate indietro, George Bush padre evita di far coincidere la guerra con la caduta di Saddam, quasi fosse più utile tenere sotto scacco un Paese che è pur sempre il secondo produttore di petrolio e che verrà impoverito con un successessivo e lunghissimo embargo. E poco conta che ancora una volta il raìs punirà i «traditori» sciiti utilizzando armi chimiche e ricorrendo a una feroce repressione.

Toccherà a George Bush figlio, insediatosi alla Casa Bianca, «ultimare il lavoro» nel 2002 dopo la ricerca formale di una motivazione che giustifichi l’invasione dell’Iraq, considerato senza alcuna prova da Washington il più grande arsenale di armi chimiche del mondo. La guerra spaccherà l’Onu e l’Europa, ma non un solo bidone di iprite verrà mai ritrovato. La capacità militare irachena non consente di resistere all’avanzata delle truppe anglo-americane e a Saddam, rifugiatosi a Tikrit, non resterà che affidarsi alla guerriglia in un Paese che dimostra di avere ancora paura di lui e di non amare gli invasori. Fin quando non comparirà, impotente come un detenuto comune, sugli schermi tv di tutto il mondo.

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