Da Corriere della Sera del 17/03/2004

Visto da Washington

Bush chiede agli alleati di restare In estate 6 grandi basi per i soldati

Il piano per il passaggio dei poteri a un governo provvisorio Gli Usa aspettano una nuova risoluzione al Palazzo di Vetro

di Ennio Caretto

WASHINGTON - Nel migliore degli scenari, tutto cambierà in Iraq il 30 giugno prossimo. L’autorità anglo-americana consegnerà il potere al governo provvisorio iracheno, le sue truppe si arroccheranno in sei grandi basi militari nei punti più importanti del Paese, e i due governatori Paul Bremer (Usa) e Jeremy Greenstock (britannico) faranno ritorno in patria, oppure rimarranno come ambasciatori. Per allora, il Consiglio di sicurezza all'Onu avrà approvato una forza multinazionale per l'Iraq, forse della Nato, sotto il comando unificato americano. E l'Onu stesso avrà assunto «un ruolo vitale», come ama spiegare la Casa Bianca, nella transizione del Paese alla democrazia, ossia nel varo di una costituzione e nella preparazione di libere elezioni. L'ordine pubblico dipenderà dal governo provvisorio iracheno, ma la forza multinazionale interverrà contro il terrorismo e per la sicurezza nazionale.

A pochi giorni dalla strage di Madrid, mentre il nuovo governo spagnolo minaccia il ritiro delle sue truppe dallo Iraq, e l'America lo accusa di approfondire il solco tra le due coste dell’Atlantico, lo scenario può sembrare troppo roseo. Ma l'amministrazione Bush è decisa a realizzarlo, almeno nelle parti principali, e gradatamente. Pianifica un simbolico richiamo di alcuni militari e funzionari civili dall'Iraq tra due o tre mesi, a dimostrazione che si volta pagina; e appresta le difese di un’enorme ambasciata di 4 mila persone, una città nella città di Bagdad.

L'amministrazione Bush intende compiere analogo sforzo all'Onu. Ieri, dall'India dove è in visita, il segretario di Stato Colin Powell ha annunciato di volere chiedere una nuova risoluzione al Consiglio di sicurezza. Il portavoce della Casa Bianca Scott McClellan ha confermato che «verrà presa in seria considerazione» dal presidente. «Si tratta di attualizzare la risoluzione 1511». Approvata l'ottobre scorso, la risoluzione autorizza la formazione di un corpo di pace multinazionale al comando Usa per l'Iraq, e incarica l'Onu di collaborare con il governo provvisorio iracheno alla scelta delle date della costituzione e delle elezioni. McClellan ha rifiutato di discutere della Nato, ma è a una sua presenza che mirano il Dipartimento di Stato e i democratici al Congresso: «Sarebbe il migliore ombrello per i nostri alleati» hanno dichiarato il candidato alla presidenza John Kerry e il senatore Joe Biden.

Parlando ai giornalisti al termine di un incontro con il leader olandese Jan Balkenende, Bush ha glissato sulla nuova risoluzione, rivolgendo invece un appello all'Europa a non indebolire la coalizione contro il terrorismo. «Noi e gli alleati dobbiamo essere forti e risoluti. I terroristi cercano di scuotere la nostra determinazione, ma non ci riusciranno perché sappiamo che cosa c’è in gioco. Gli iracheni non vogliono che ce ne andiamo, è essenziale che restiamo». Senza nominare l'Onu né la Nato, il ministro della Difesa Donald Rumsfeld ha aggiunto: «Credo che alla fine altri Paesi manderanno truppe in Iraq». Le colombe non escludono che nell’elenco possano esservi la Francia, che di recente ha lavorato con l'America alla soluzione della crisi di Haiti, e persino la Germania: entrambe, notano, desiderano partecipare alla ricostruzione dell'Iraq.

Falchi come Richard Perle, il consigliere del Pentagono, pensano che lo scenario sia irrealizzabile, e che l'America dovrà gestire quasi da sola il dopo Saddam. Ma l'ayatollah Ali Sistani, l'uomo più potente dell'Iraq, ha ieri scritto al rappresentante dell'Onu Lakhdar Brahimi di volere che il processo politico sia legittimato dal Palazzo di Vetro. Sebbene non lo ammetta, è una necessità avvertita anche dall'amministrazione Bush.

Il voto spagnolo è parso alla maggioranza degli americani una resa al terrorismo, ma li ha anche convinti dell'urgenza di recuperare l'Europa. «E' ora di salvare l'alleanza» ha scritto sul Washington Post il politologo Robert Kagan.

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