Da Corriere della Sera del 19/03/2004

Quei giorni allo Shahbender: «Liberi sì, ma ancora iracheni?»

di Massimo Nava

«Gli iracheni hanno imparato da secoli che lo straniero è come la tempesta nel deserto. Quando arriva puoi soltanto cercare di ripararti», diceva il vecchio Amir, professore d’inglese e studioso di Shakespeare. Seduto allo «Shahbender», il caffè più antico di Bagdad, regalava un po ’ di saggezza popolare e confidava ai giornalisti che l’inizio della guerra, nonostante la paura, era un modo per sentirsi ancora parte del mondo. «Dopo anni di embargo e isolamento, adesso tanti stranieri vengono qui a parlare con noi». Lo «Shahbender», con il profumo di tè e tabacco, le pareti azzurre con tante foto ingiallite della storia irachena e la rassegnata attesa dei bombardamenti, era una rappresentazione dello stato d’animo collettivo, un luogo della memoria dove i fatti che stavano per accadere erano già abbozzati da vecchi intenti a fumare la pipa, come in una tragedia vissuta molte volte, conosciuta e tramandata ai posteri. Non erano necessarie sfere di cristallo, rapporti dell’ intelligence o profonda conoscenza del Paese per capire che cosa sarebbe accaduto e prevedere che la guerra sarebbe stata breve e il dopoguerra infinito. Bastava ascoltare testimoni del tempo come il vecchio Amir, che citava Lawrence d’Arabia: «Quando si comincia una guerra da queste parti è come mangiare una zuppa con il coltello»; o guardare fotografie alle pareti, come quella del 1917 (per chi ama le coincidenze o la cabala era un 11 marzo), con la sfilata delle truppe britanniche che invadevano Bagdad. Erano agli ordini del generale Stanley Maude che diceva al popolo iracheno: «Non veniamo qui come nemici, né come conquistatori, ma come liberatori». Seguirono rivolte e massacri, l’indipendenza arrivò quindici anni dopo.

L’unica cosa che i vecchi di Bagdad non potevano sapere era l’esistenza o meno delle armi di distruzione di massa, il pretesto per la guerra. Qualcuno, sottovoce, non dubitava della follia sanguinaria di Saddam, ma nemmeno il più dotato di immaginazione riusciva a concepire le «Mille e una» bugia che popoli democratici avrebbero dovuto ascoltare per condividere l’attacco all’Iraq.

Eppure qualcuno, come il vecchio Amir, non riusciva a nascondere la vaga speranza che la guerra si rivelasse, alla fine, il male minore, il modo per uscire dall’inferno materiale e dall’oscurantismo ideologico. Non per lui, ma per le generazioni di iracheni che, sotto Saddam, non hanno conosciuto che miseria e lutti. Loro, i giovani, avrebbero smesso di fotocopiare le sue dispense d’inglese e cominciato a comperare libri stranieri, veri giornali, computer.

E, proprio come nelle tragedie tanto amate di Shakespeare, Amir sembrava accettare un destino terribile, pagato come una colpa, due volte: quello di morire sotto un regime o di accettare le bombe americane per liberarsene. Colpe di popoli e nuove regole internazionali che si stanno pagando e applicando, sempre più spesso nel mondo. Noi che lo ascoltavamo, nell’attesa dei primi raid, vivevamo la scissione e il ricatto morale degli spettatori occidentali: condannare la mostruosità della guerra o condannare il regno di Saddam.

Le voci dello «Shahbender» sembravano, oltre che le più umane, le uniche razionali nell’assordante susseguirsi di suoni e proclami che si stava abbattendo su Bagdad. La radio irachena trasmetteva marce militari dopo gli ultimi appelli del raìs alla resistenza. L’incedere dei carri armati e le urla di vittoria dei pretoriani agli angoli delle strade volevano prefigurare una Stalingrado della Mesopotamia che invece si sarebbe dissolta in poche settimane.

E ovunque s’invocava Dio. Pregato nelle case, perché tenesse lontane, almeno dalle donne e dai bambini, le bombe intelligenti ed esaltato dai capi religiosi, perché decidesse da che parte stare. E Dio sembrava non dar retta a nessuno, perché le bombe avrebbero fatto almeno diecimila morti fra i civili e il conflitto, come ovvio, sarebbe stato deciso dalla schiacciante supremazia militare.

Oggi, nel primo anniversario dell’attacco, a pochi giorni dalla strage di Madrid, non dovrebbe essere superfluo ricordare anche i corpi martoriati di donne e bambini iracheni, rimasti sepolti fra le macerie di un mercato, di una casa qualsiasi, di un ristorante. A chi è rimasto a piangerli, importa poco che gli ordigni fossero democratici e liberatori.

Già nelle prime ore di guerra, con le voci di sommosse nei miserabili quartieri sciiti, si toccava con mano l’altra facile profezia dei vecchi dello «Shahbender»: la guerra come occasione di riscatto di masse neglette, il crollo del regime come detonatore di nuovi equilibri sociali e religiosi da realizzare quando i liberatori avrebbero fatto le valigie. Nell’antico bar, la divisione religiosa non era avvertita. Il cristiano Amir parlava con amici sciiti e sunniti, essendo ancora per qualche ora tutti soltanto sudditi. «Prima di tutto siamo iracheni», diceva qualcuno. Non era retorica patriottica, ma il dignitoso ricordare a se stessi la storia millenaria di un popolo che stava per essere annientato.

Se ha un senso ricordare un anniversario, il primo giorno di guerra a Bagdad fu anche l’inizio di un’altra cancellazione. Oltre a quella del regime cominciarono a sparire l’identità di un popolo e l’immagine di un Paese. L’Iraq di oggi è terra occupata, deserto di odio, palestra e rifugio del terrorismo, misura di un’altra scissione e ricatto morale per noi occidentali: andarsene o assumersi la responsabilità di medicare il disastro.

Quando le prime bombe cominciarono a cadere, il regime di Saddam sembrò dissolversi in un gigantesco falò di ministeri, palazzi, sedi del partito Baath. E fra le esplosioni e il silenzio si sentiva soltanto un ossessionante latrato di cani randagi. Era l’unico segno di vita e di protesta. Gli iracheni, ha scritto un poeta, sono «habitués» della sofferenza.

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