Da Corriere della Sera del 28/04/2004
Intervento dopo il caso Bilancia
Ciampi: in tv troppa negatività
di Aldo Grasso
Ciampi dopo il caso Bilancia: «Basta immagini che suscitano ansia». A pag. 17 Arachi, Breda, Latella
Ha ragione il presidente Ciampi quando sostiene che i cittadini sono «stanchi di un bombardamento continuo di negatività, di immagini che suscitano preoccupazione e ansia diffuse in tutti gli spazi di informazione». Giustamente parla di cittadini e non di telespettatori, spostando il problema dalla sfera dell'audience a quella della convivenza civile. Credo che sbaglino perciò coloro che riducono il richiamo del presidente della Repubblica a un caso contingente, a un'indignazione per un'intervista inopportuna, quasi che il serial killer sia stato l'intervistatore e non l'intervistato. Prendiamo il caso di domenica: è vero, l'intervista a Donato Bilancia trasmessa da «Domenica in» era letteralmente fuori luogo. Lo abbiamo scritto a caldo e lo ripetiamo oggi. Ma fuori luogo sono parse anche molte riprovazioni: quelle dei professionisti dell'indignazione che non aspettano altro per rubare un po' di visibilità, quelle dei militanti che vedono in Al Jazira un modello ideale di tv e sparano ad alzo zero, quelle dei virtuosi smemorati che non ricordano più le interviste a Pacciani e le «storie maledette» di Franca Leosini, quelle di bottega, su chi ha la patente di intervistatore e chi no. Il discorso di Ciampi ha un respiro più ampio e riguarda il cattivo uso della tv: molto spesso, infatti, si ha la sensazione che il medium sia ossessionato solo da alcuni temi, appiattito su forme patologiche di intrattenimento, attratto morbosamente dalla negatività. Claudio Magris ricordava ieri i rischi terribili di considerare il male come una manifestazione della quotidianità, uno spettacolo fra altri spettacoli e, citando Hannah Arendt, ci ammoniva sui pericoli della banalità del male. Ma in tv esiste qualcosa di altrettanto temibile: il male della banalità.
Seguendo alcuni programmi di successo, sembra che l'italiano tipo sia una persona la cui unica scuola è la palestra, i cui interessi si riducono a come fare soldi, al sesso, ai vestiti, le cui forme di comunicazione sono l'imprecazione, la scenata, la lagna, la lacrima facile, la rissa. Nessun’altra sollecitudine, nessun’altra preoccupazione, nessun’altra curiosità. Questi messaggi si coagulano in una tendenza, esprimono il lessico di un branco, funzionano come marche di riconoscibilità: in questo modo la tv stabilisce degli standard attraverso cui noi vediamo, giudichiamo, ci comportiamo di conseguenza. L'apparire è ormai diventato un'operazione, un tirocinio, un'industria e l'apparenza tende a consacrarsi quale unica realtà: «As seen on tv», come l'avete visto in tv, è questa ormai la garanzia ultima e più autorevole che la persona o l'oggetto che ci stanno di fronte sono proprio quelli che cercavamo.
Si dice che un tempo la tv (in particolare il Servizio pubblico) svolgesse un ruolo pedagogizzante e si ricordano al proposito alcune trasmissioni celebri: «Non è mai troppo tardi», «Sapere», la prosa del venerdì, i romanzi sceneggiati. Paradossalmente però la tv (almeno quella generalista) svolge una funzione molto più pedagogizzante oggi che si rivolge a un pubblico marginalizzato, periferico, più debole per censo, per istruzione, per tenuta psicologica (avete mai sentito di un ricco che passa i suoi pomeriggi a seguire «Al posto tuo»?). Solo che adesso l'insegnamento della tv è un insegnamento a breve termine, del giorno per giorno, si fonda su un progetto pedagogico senza pedagogia. La tv non fa che accrescere un'atmosfera di continua e apparentemente incurabile precarietà. Facile così dare la colpa ai reality show (che almeno esaltano il lato psicologico della comunicazione e permettono alla gente comune di esprimersi attraverso la grammatica dei format) che sono anonimi, che non hanno un conduttore, che è gratificante classificare come «spazzatura».
Più difficile, ovviamente, fare nomi e cognomi dei nostri punti di riferimento televisivo: la volgarità è sempre degli altri, non ci appartiene mai.
Le parole di Ciampi sono dunque un invito a convertire il formidabile potenziale della tv in un tentativo di comprensione del mondo, di trasformare lo spettatore in cittadino. Per usare un'immagine di George Steiner, la tv ci addestra a una «cultura da casinò» in cui il tempo è suddiviso in giochi separati, ogni gioco non ha niente da fare con gli altri e l'azzardo è sovrano. Non è nostro compito fare i palinsesti ma almeno la Rai dovrebbe servirsi di una rete per fare massa critica, per metter insieme un po' di programmi (gli approfondimenti, le inchieste, le trasmissioni sulla storia) in cui l'intelligenza non venga umiliata, per dissipare l'equivoco di fondo della nostra tv. Che è incapace di fare cultura perché non conosce più il fondamento stesso della cultura: la diversità. Questa è la negatività che più ci inquieta. Più della censura. Più di un'intervista sbagliata.
Ha ragione il presidente Ciampi quando sostiene che i cittadini sono «stanchi di un bombardamento continuo di negatività, di immagini che suscitano preoccupazione e ansia diffuse in tutti gli spazi di informazione». Giustamente parla di cittadini e non di telespettatori, spostando il problema dalla sfera dell'audience a quella della convivenza civile. Credo che sbaglino perciò coloro che riducono il richiamo del presidente della Repubblica a un caso contingente, a un'indignazione per un'intervista inopportuna, quasi che il serial killer sia stato l'intervistatore e non l'intervistato. Prendiamo il caso di domenica: è vero, l'intervista a Donato Bilancia trasmessa da «Domenica in» era letteralmente fuori luogo. Lo abbiamo scritto a caldo e lo ripetiamo oggi. Ma fuori luogo sono parse anche molte riprovazioni: quelle dei professionisti dell'indignazione che non aspettano altro per rubare un po' di visibilità, quelle dei militanti che vedono in Al Jazira un modello ideale di tv e sparano ad alzo zero, quelle dei virtuosi smemorati che non ricordano più le interviste a Pacciani e le «storie maledette» di Franca Leosini, quelle di bottega, su chi ha la patente di intervistatore e chi no. Il discorso di Ciampi ha un respiro più ampio e riguarda il cattivo uso della tv: molto spesso, infatti, si ha la sensazione che il medium sia ossessionato solo da alcuni temi, appiattito su forme patologiche di intrattenimento, attratto morbosamente dalla negatività. Claudio Magris ricordava ieri i rischi terribili di considerare il male come una manifestazione della quotidianità, uno spettacolo fra altri spettacoli e, citando Hannah Arendt, ci ammoniva sui pericoli della banalità del male. Ma in tv esiste qualcosa di altrettanto temibile: il male della banalità.
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Si dice che un tempo la tv (in particolare il Servizio pubblico) svolgesse un ruolo pedagogizzante e si ricordano al proposito alcune trasmissioni celebri: «Non è mai troppo tardi», «Sapere», la prosa del venerdì, i romanzi sceneggiati. Paradossalmente però la tv (almeno quella generalista) svolge una funzione molto più pedagogizzante oggi che si rivolge a un pubblico marginalizzato, periferico, più debole per censo, per istruzione, per tenuta psicologica (avete mai sentito di un ricco che passa i suoi pomeriggi a seguire «Al posto tuo»?). Solo che adesso l'insegnamento della tv è un insegnamento a breve termine, del giorno per giorno, si fonda su un progetto pedagogico senza pedagogia. La tv non fa che accrescere un'atmosfera di continua e apparentemente incurabile precarietà. Facile così dare la colpa ai reality show (che almeno esaltano il lato psicologico della comunicazione e permettono alla gente comune di esprimersi attraverso la grammatica dei format) che sono anonimi, che non hanno un conduttore, che è gratificante classificare come «spazzatura».
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