Da La Repubblica del 23/09/2004
L'ora cruciale del ritiro
di Sandro Viola
NON c´era bisogno che lo dicesse l´altro giorno Kerry, perché questo lo sapevamo tutti: la situazione in Iraq appare ormai irrimediabile, e presto sarà insostenibile. La "ricostruzione" e i tentativi di pacificare il paese sono falliti. Invece di ridursi, il rigetto della presenza straniera s´estende. Al momento, l´approssimarsi delle due elezioni, le presidenziali americane e le politiche irachene, impediscono il ritiro delle forze della coalizione. Ma all´inizio del prossimo anno, verso la primavera come dice Kerry, la Casa Bianca e il governo britannico dovranno decidere di lasciare l´Iraq. L´idea che fra 5 o 6 mesi il peggio potrebbe essere passato, non ha più alcun fondamento. In Iraq esplodono ogni giorno due o tre autobomba per mano d´altrettanti kamikaze.
Il che significa che le centrali terroristiche dispongono di decine e decine, forse centinaia, d´aspiranti suicidi. Non c´è sosta nella presa d´ostaggi, nei ricatti che ne conseguono, e nello sgozzamento o decapitazione d´una parte dei prigionieri. Il mortaio dei rivoltosi spara contro americani e inglesi dal centro stesso di Bagdad e Bassora, i giovani iracheni che vorrebbero arruolarsi nell´esercito e nella polizia del governo provvisorio vengono falcidiati dinanzi ai centri di reclutamento. In situazioni come queste ? s´insegna nelle scuole di guerra ? gli stati maggiori devono preparare i piani d´evacuazione.
Così, l´approccio al dramma Iraq cambia radicalmente. Dibattere se bisognasse o no fare la guerra a Saddam, indignarsi per la miopia politica e l´impreparazione militare con cui Bush e i suoi lanciarono un anno e mezzo fa l´attacco su Bagdad, elencare i mille e madornali errori commessi dopo la dissoluzione dell´esercito iracheno, non ha più senso. Su questi aspetti della questione è stato detto tutto quel che c´era da dire. I calcoli dei neoconservatori erano sbagliati, gli americani si sono mossi in Iraq altrettanto ciecamente e stolidamente dei sovietici in Afghanistan, e il risultato è che il terrorismo jihadista colpisce anche più forte di quanto facesse prima della guerra.
Perciò è necessario avviare un nuovo e diverso dibattito sull´avventura irachena. Una discussione che non riguardi più quel che è avvenuto sin adesso a Bagdad e dintorni, bensì l´ora cruciale del ritiro. I giorni in cui le navi e i grandi aerei da trasporto imbarcheranno le truppe occidentali. Le sere in cui le immagini di quell´imbarco (che molto probabilmente avverrà sotto il fuoco di varie fazioni e vari gruppi terroristici) appariranno sugli schermi televisivi di tutto il mondo. Di questo bisogna adesso discutere, partendo da una domanda grave: le opinioni pubbliche e i governi occidentali sono consapevoli della portata storica, politica e strategica che avrà il ritiro dall´Iraq?
Tutto spinge a dubitarne. Meglio sapere già da ora, infatti, che ci saranno governi e opinion makers i quali non vorranno perdere l´occasione di ribadire che essi avevano previsto il disastro: nelle loro parole serpeggerà non solo un rinnovato e severo rimprovero della "stupidità americana", ma persino l´accenno d´un compiacimento. Ci saranno enormi ed esultanti cortei pacifisti, che inneggeranno alla fine della guerra con slogan antiamericani. Ascolteremo ancora una volta (ma stavolta pronunciati con un accento di vittoria) i discorsi su come si debba condurre una più efficace lotta contro il terrorismo: dialogo a tutto campo, aiuti allo sviluppo, appelli agli islamici moderati. I giornali e le tv torneranno pian piano agli argomenti consueti, che del resto interessano i loro pubblici più di quel che accade a Falluja o a Sadr city: l´aumento dei prezzi, le città insicure, la caccia alla volpe o il principe Felipe.
Proviamo ora a gettare uno sguardo sull´altro versante. A immaginare che tipo di reazioni si produrranno ? i giorni del ritiro dall´Iraq ? sul versante arabo e islamico. Perché c´è un punto che sarebbe irresponsabile trascurare: agli iracheni, agli altri arabi, agli islamici, l´imbarco delle truppe della coalizione non apparirà solamente come il fallimento della triade Bush-Cheney-Rumsfeld, ma come una rotta dell´intero Occidente. La sconfitta dell´ultima Crociata, il risveglio dell´Islam. Una svolta della storia.
Quale che sia la parte realmente avuta nel disastro iracheno, il terrorismo islamico che si collega o soltanto richiama ad Al Qaeda, impugnerà come un trofeo, come un´altra testa tagliata, il ritiro degli occidentali. Dopo l´Afghanistan, infatti, l´Iraq: dopo l´umiliazione della superpotenza sovietica, l´umiliazione dell´"iperpotenza" americana. Un orgoglio sempre più fanatico, una fiducia illimitata nella propria forza, circoleranno nei ranghi dei gruppi ubiqui e innumerevoli che s´abbeverano ai proclami di bin Laden.
In quei proclami s´incitava a "uccidere gli americani e gli alleati degli americani, sia civili sia militari, finché i loro eserciti, disfatti e stremati, non lasceranno tutte le terre dell´Islam". Sicché alla vista dell´uscita degli "infedeli" da Bagdad, che fu il centro del mondo islamico per mezzo millennio, il tripudio dei fondamentalisti non avrà argini. Un tripudio che farà probabilmente barcollare i regimi pro-occidentali da Algeri a Islamabad, attraverso l´Egitto, la Giordania e l´Arabia Saudita, mentre l´Iraq, scosso da una sequela di scontri a carattere etnico e religioso, sarà divenuto un´enorme base d´azione della Jihad. Una base senza più controlli o impedimenti, e conficcata nel cuore della massima regione petrolifera del mondo.
È questo che seguirà ai giorni in cui le divisioni angloamericane e i contingenti dei paesi che hanno sostenuto l´avventura irachena, faranno armi e bagagli per rientrare a casa. Due diverse percezioni di quanto è avvenuto in Iraq domineranno in Occidente e in Oriente. Da noi una labile e confusa coscienza della sconfitta, che si cercherà in ogni modo di rimuovere. Nel mondo arabo-islamico, invece, l´esultante coscienza d´una grande vittoria. Quella che non cambierà, è la mappa appesa al muro delle centrali terroristiche: con l´America e Israele consapevoli del pericolo che incombe loro sul capo, quindi ben difesi, e un´Europa che non ha ancora focalizzato la gravità della minaccia, dunque più facile da aggredire.
Sì, in Iraq le truppe della coalizione non possono più restare.
Dovranno andarsene. Perciò è bene cominciare a discutere sul significato e le conseguenze che avrà il ritiro. Sperando che la discussione induca l´Occidente ad affrontare compatto, con un comune progetto difensivo e senza rissose recriminazioni al suo interno, le conseguenze del colpo che l´America ha subito a Bagdad. Le brecce che si son aperte dinanzi all´arab rage sono già troppo vaste e pericolose: rischiare d´allargarle mostrandosi disuniti, pensando di far fronte alla Jihad in ordine sparso, con approcci, metodi e linguaggi diversi, questo sarebbe una pazzia.
Il che significa che le centrali terroristiche dispongono di decine e decine, forse centinaia, d´aspiranti suicidi. Non c´è sosta nella presa d´ostaggi, nei ricatti che ne conseguono, e nello sgozzamento o decapitazione d´una parte dei prigionieri. Il mortaio dei rivoltosi spara contro americani e inglesi dal centro stesso di Bagdad e Bassora, i giovani iracheni che vorrebbero arruolarsi nell´esercito e nella polizia del governo provvisorio vengono falcidiati dinanzi ai centri di reclutamento. In situazioni come queste ? s´insegna nelle scuole di guerra ? gli stati maggiori devono preparare i piani d´evacuazione.
Così, l´approccio al dramma Iraq cambia radicalmente. Dibattere se bisognasse o no fare la guerra a Saddam, indignarsi per la miopia politica e l´impreparazione militare con cui Bush e i suoi lanciarono un anno e mezzo fa l´attacco su Bagdad, elencare i mille e madornali errori commessi dopo la dissoluzione dell´esercito iracheno, non ha più senso. Su questi aspetti della questione è stato detto tutto quel che c´era da dire. I calcoli dei neoconservatori erano sbagliati, gli americani si sono mossi in Iraq altrettanto ciecamente e stolidamente dei sovietici in Afghanistan, e il risultato è che il terrorismo jihadista colpisce anche più forte di quanto facesse prima della guerra.
Perciò è necessario avviare un nuovo e diverso dibattito sull´avventura irachena. Una discussione che non riguardi più quel che è avvenuto sin adesso a Bagdad e dintorni, bensì l´ora cruciale del ritiro. I giorni in cui le navi e i grandi aerei da trasporto imbarcheranno le truppe occidentali. Le sere in cui le immagini di quell´imbarco (che molto probabilmente avverrà sotto il fuoco di varie fazioni e vari gruppi terroristici) appariranno sugli schermi televisivi di tutto il mondo. Di questo bisogna adesso discutere, partendo da una domanda grave: le opinioni pubbliche e i governi occidentali sono consapevoli della portata storica, politica e strategica che avrà il ritiro dall´Iraq?
Tutto spinge a dubitarne. Meglio sapere già da ora, infatti, che ci saranno governi e opinion makers i quali non vorranno perdere l´occasione di ribadire che essi avevano previsto il disastro: nelle loro parole serpeggerà non solo un rinnovato e severo rimprovero della "stupidità americana", ma persino l´accenno d´un compiacimento. Ci saranno enormi ed esultanti cortei pacifisti, che inneggeranno alla fine della guerra con slogan antiamericani. Ascolteremo ancora una volta (ma stavolta pronunciati con un accento di vittoria) i discorsi su come si debba condurre una più efficace lotta contro il terrorismo: dialogo a tutto campo, aiuti allo sviluppo, appelli agli islamici moderati. I giornali e le tv torneranno pian piano agli argomenti consueti, che del resto interessano i loro pubblici più di quel che accade a Falluja o a Sadr city: l´aumento dei prezzi, le città insicure, la caccia alla volpe o il principe Felipe.
Proviamo ora a gettare uno sguardo sull´altro versante. A immaginare che tipo di reazioni si produrranno ? i giorni del ritiro dall´Iraq ? sul versante arabo e islamico. Perché c´è un punto che sarebbe irresponsabile trascurare: agli iracheni, agli altri arabi, agli islamici, l´imbarco delle truppe della coalizione non apparirà solamente come il fallimento della triade Bush-Cheney-Rumsfeld, ma come una rotta dell´intero Occidente. La sconfitta dell´ultima Crociata, il risveglio dell´Islam. Una svolta della storia.
Quale che sia la parte realmente avuta nel disastro iracheno, il terrorismo islamico che si collega o soltanto richiama ad Al Qaeda, impugnerà come un trofeo, come un´altra testa tagliata, il ritiro degli occidentali. Dopo l´Afghanistan, infatti, l´Iraq: dopo l´umiliazione della superpotenza sovietica, l´umiliazione dell´"iperpotenza" americana. Un orgoglio sempre più fanatico, una fiducia illimitata nella propria forza, circoleranno nei ranghi dei gruppi ubiqui e innumerevoli che s´abbeverano ai proclami di bin Laden.
In quei proclami s´incitava a "uccidere gli americani e gli alleati degli americani, sia civili sia militari, finché i loro eserciti, disfatti e stremati, non lasceranno tutte le terre dell´Islam". Sicché alla vista dell´uscita degli "infedeli" da Bagdad, che fu il centro del mondo islamico per mezzo millennio, il tripudio dei fondamentalisti non avrà argini. Un tripudio che farà probabilmente barcollare i regimi pro-occidentali da Algeri a Islamabad, attraverso l´Egitto, la Giordania e l´Arabia Saudita, mentre l´Iraq, scosso da una sequela di scontri a carattere etnico e religioso, sarà divenuto un´enorme base d´azione della Jihad. Una base senza più controlli o impedimenti, e conficcata nel cuore della massima regione petrolifera del mondo.
È questo che seguirà ai giorni in cui le divisioni angloamericane e i contingenti dei paesi che hanno sostenuto l´avventura irachena, faranno armi e bagagli per rientrare a casa. Due diverse percezioni di quanto è avvenuto in Iraq domineranno in Occidente e in Oriente. Da noi una labile e confusa coscienza della sconfitta, che si cercherà in ogni modo di rimuovere. Nel mondo arabo-islamico, invece, l´esultante coscienza d´una grande vittoria. Quella che non cambierà, è la mappa appesa al muro delle centrali terroristiche: con l´America e Israele consapevoli del pericolo che incombe loro sul capo, quindi ben difesi, e un´Europa che non ha ancora focalizzato la gravità della minaccia, dunque più facile da aggredire.
Sì, in Iraq le truppe della coalizione non possono più restare.
Dovranno andarsene. Perciò è bene cominciare a discutere sul significato e le conseguenze che avrà il ritiro. Sperando che la discussione induca l´Occidente ad affrontare compatto, con un comune progetto difensivo e senza rissose recriminazioni al suo interno, le conseguenze del colpo che l´America ha subito a Bagdad. Le brecce che si son aperte dinanzi all´arab rage sono già troppo vaste e pericolose: rischiare d´allargarle mostrandosi disuniti, pensando di far fronte alla Jihad in ordine sparso, con approcci, metodi e linguaggi diversi, questo sarebbe una pazzia.
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