Da Corriere della Sera del 28/09/2004

Aisha, Samira e le altre: la poligamia in Italia

Migliaia di donne musulmane senza tutele. «Abusi e violenze, la legge non ci protegge dalla sharia»

di Magdi Allam

ROMA - Poligamia, tanta violenza e un secco rifiuto di «concedere» il ripudio. Perché Aisha è una schiava dei nostri tempi: è costretta a lavorare duro per mantenere il marito-padrone, deve rassegnarsi a farsi sfruttare fino all’ultimo dei suoi giorni. Se non si concede, se disobbedisce, se si ribella, lui ammazza di botte lei e la figlia, prende in mano l’acido e minaccia di deturpare i loro volti, esibisce una tanica di benzina e promette di dare fuoco alla casa. Alla fine lei si è fatta coraggio e l’ha denunciato alla Polizia. Ma la risposta è stata raggelante: le autorità italiane non possono intervenire fintantoché lei non dimostri di aver divorziato. Anche se in realtà il loro è un matrimonio islamico non riconosciuto dal nostro Stato. Indifferenti al fatto che il divorzio a una donna musulmana viene concesso solo in casi straordinari. Eppure succede in Italia: fette, esigue ma significative, del vissuto sociale dei residenti musulmani sono sottratte alle nostre leggi, sono sottomesse ai dettami della sharia , la legge islamica. A pagarne le conse guenze sono soprattutto migliaia di donne musulmane. Se, come attesta un’inchiesta da me svolta nel 2001, l’1,5 per cento dei musulmani in Italia sono poligami, significa che abbiamo a che fare con 15 mila casi, considerando anche le situazioni nei paesi d’origine. Pochi rispetto al milione di musulmani residenti, troppi per ciò che comporta sul piano della violazione della legalità e dei diritti fondamentali della persona. Il paradosso è che tutto ciò avviene, da un lato, all’ombra di un’interpretazione miope e burocratica del diritto internazionale che salvaguarda la legislazione del Paese d’origine degli immigrati in materia di stato civile e, dall’altro, di un atteggiamento fin troppo accondiscendente dei nostri magistrati all’insegna di una singolare percezione del relativismo culturale. La sentenza del tribunale di Bologna del 13 marzo 2003 ha indirettamente riconosciuto il diritto alla poligamia in Italia, sostenendo che «il reato di bigamia può essere commesso solo dal cittadino italiano sul territorio nazionale essendo irrilevante il comportamento tenuto all’estero dallo straniero la cui legge nazionale riconosce la possibilità di contrarre più matrimoni».

Ebbene sono proprio le donne musulmane, vittime dei mariti-padroni, a contestare l’assenza di una legge che le protegga e a invocare l’intervento dello Stato italiano: «Sono da vent’anni in Italia. Ho sempre lavorato onestamente nelle case di tanti italiani - racconta Aisha -. Ho implorato mio marito di ripudiarmi. Ma lui non vuole. Gli interessa solo sfruttarmi». La figlia Huda ha tredici anni, è nata in Italia, ha studiato in Italia, i suoi amici sono italiani, si sente italiana al cento per cento. Quando negli scorsi giorni Aisha, 43 anni, presa dalla disperazione è stata tentata di fuggire nella sua Tunisia, Huda l’ha implorata: «Mamma non voglio, io voglio vivere in Italia». Ed è così che Aisha si è decisa a rivolgersi alle autorità di sicurezza. Perché anche lei si sente italiana. Il suo sogno è ottenere la cittadinanza italiana, farsi tutelare dalle nostre leggi.

Il matrimonio con Mohammad, cittadino egiziano, da tempo disoccupato e tossicodipendente cronico, fu celebrato nel 1990 in un ufficio di attività varie, gestito da un somalo a Roma. Si trattò del cosiddetto matrimonio islamico «consuetudinario» ( zawaj urfi ), che non necessariamente deve essere registrato. Per l’Italia non ha alcun valore legale. Eppure, sullo stato di famiglia, Aisha e Mohammad risultano sposati. Esclusivamente sulla base della constatazione della residenza domiciliare operata da un vigile urbano. «Lui mi nascose il fatto che aveva già una moglie e due figli in Egitto», ricorda Aisha. «Per me fu uno choc. Anche perché ero appena venuta fuori da un altro matrimonio poligamico. Il mio primo marito era sempre egiziano. Pure lui quando ci sposammo nel 1985 celò l’esistenza di una prima moglie italiana, da cui aveva avuto una figlia. Ho imparato a mie spese che cosa significa la poligamia: menzogne, sfruttamento, sottomissione e violenze».

Aisha, con voce sommessa, rammenta come, assecondando l’incessante corteggiamento di Mohammad, sia stata costretta a rinunciare al suo primogenito Omar, oggi un bel diciottenne con cittadinanza italiana ottenuta dopo essere stato adottato dalla matrigna italiana. Per Aisha è stato un duro colpo: «Forse è stato meglio così. Se Omar fosse rimasto con me, chissà che brutta fine avrebbe fatto». Per spiegarsi meglio dice: «Un giorno ho scoperto Mohammad che versava una polverina bianca nel bicchiere dell’aranciata di Huda, dicendole di bere. Io mi sono opposta. E’ un uomo senza scrupoli, è una bestia. Sarebbe capace di dare in pasto la figlia agli avanzi di galera che frequenta, spacciatori e consumatori di droga. Più di una volta mi ha teso il coltello alla gola minacciando di sgozzarmi se non gli davo centinaia di euro per comprarsi la droga. Negli ultimi tempi ho dovuto chiamare l’ambulanza due volte perché aveva assunto una dose eccessiva di stupefacenti».

Oggi Huda si presenta come una ragazza fragile, dallo sguardo perso, succube di un trauma non metabolizzato, parla poco e con difficoltà. Come lei in Italia ci sono tantissimi figli di famiglie poligame abbandonati a se stessi, spesso maltrattati, talvolta sfruttati, comunque segnati da un’esperienza indelebile: «Dobbiamo recuperare questi ragazzi vittime della violenza familiare, predisporre un programma di rieducazione psichica e sociale - chiede Souad Sbai, presidente dell’Associazione delle donne marocchine -; lancio un appello al ministro delle Pari opportunità, Stefania Prestigiacomo, perché intervenga a tutela dei figli e delle donne musulmane vittime della poligamia e della violenza».

Di fatto l’Italia è piena di casi simili. E anche di più strazianti. Samira, una tunisina residente a Torino, da più di dieci anni non vede i suoi due figli sottratti con la forza dal padre egiziano e nascosti nell’abitazione della sua seconda moglie in Egitto. Pure lei implora l’intervento dello Stato italiano per restituirle i figli. Nel frattempo è costretta a subire le vessazioni del marito che vive da parassita alle sue spalle nel nostro Paese. E da Nuoro la marocchina Halima, seconda moglie di un connazionale, ha preso il coraggio di denunciare il fatto che il marito, nullafacente, si fa mantenere da entrambe le consorti e le costringe a condividere la stessa casa. I consolati arabi in Italia conoscono centinaia di casi che coniugano la poligamia alla violenza. Ma preferiscono tacere. Contando anche sulla ritrosia delle autorità italiane a intervenire.

Questo fenomeno rivela come in realtà il conflitto tra le culture sia interno alla galassia islamica prima ancora di esserlo tra l’Islam e l’Occidente. Il maschilismo, la misoginia, il fanatismo e la violenza sono fortemente contrastati dalle donne e dagli uomini musulmani fautori dell’emancipazione femminile e dello Stato di diritto. Ed è singolare che proprio nel momento in cui la poligamia risulta in declino nei Paesi musulmani, perfino in quelli più conservatori come l’Arabia Saudita, guadagna invece terreno tra le comunità islamiche in Italia e nell’Occidente laico e cristiano. Facendo leva su condizioni di vita relativamente migliori e tollerata da interpretazioni benevole di codici giuridici ipergarantisti. I casi di Aisha, Samira e Halima devono farci riflettere. Aiutandole a emanciparsi dai mariti-padroni, aiuteremo noi stessi a liberarci da un cavallo di Troia integralista e fanatico che inquina la nostra libertà e il nostro Stato di diritto.

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