Da La Repubblica del 04/10/2004
Il capo del Pentagono: gli Usa potrebbero ritirarsi a patto che Bagdad sia in grado di gestire la sicurezza
Rumsfeld: "Via dall´Iraq anche senza la pace totale"
Il segretario alla Difesa: non ci sono segni di guerra civile
Il ministro viene accusato di essere uno dei responsabili del pantano iracheno
Secondo gli ultimi piani militari, 120 mila soldati potrebbero dover restare per anni
di Alberto Flores D'Arcais
NEW YORK - I marines fuori dall´Iraq prima che il paese venga completamente pacificato. Non è l´ultima idea di Kerry "flip-flop" ma la concreta possibilità ventilata da uno che di quanto accade in Iraq se ne intende e che sul "dopoguerra" si sta giocando la poltrona: Donald Rumsfeld. Che il segretario alla Difesa Usa sia uno senza peli sulla lingua, che le cose (anche spiacevoli) le dica sempre in modo molto franco è noto a tutti, ma la sua ultima sortita - due giorni dopo il dibattito Bush-Kerry - ha colto di sorpresa anche qualche ufficiale che al Pentagono è di casa.
Intervistato dalla Fox sabato sera Rumsfeld ha ribadito un concetto che - sia pure in modo meno netto - aveva ventilato altre volte; le forze militari americane potrebbero ritirarsi dall´Iraq molto prima del previsto, a patto che il governo di Bagdad sia in grado di «gestire la situazione dal punto di vista della sicurezza».
Tutto al condizionale ovviamente, perché le condizioni che Rumsfeld pone al momento ancora non ci sono e al momento non sembra facile ci possano essere neanche dopo le elezioni di gennaio. Rumsfeld ha ammesso di essere rimasto sorpreso dalla resistenza anti-americana («la violenza crescerà in previsione delle elezioni di gennaio») ma si è detto convinto che non ci siano «al momento segni di una guerra civile»: «Il rischio è che i terroristi, gli estremisti e tutte quelle persone che vanno in giro a decapitare e a uccidere uomini, donne e bambini innocenti possano prendere il controllo dell´Iraq. Immaginate un paese guidato da gente che va in giro a staccare teste, una prospettiva drammatica».
La sortita televisiva costerà a Rumsfeld nuove critiche. Il segretario alla Difesa è il maggiore indiziato per il "pantano" iracheno ed è da mesi sotto accusa per non aver saputo prevedere come sarebbero andate le cose e per la mancanza di una strategia convincente e realistica sul dopoguerra. Accuse che non provengono solo dall´opposizione democratica - Kerry ne ha fatto uno dei suoi slogan elettorali preferiti - ma anche dai suoi nemici nell´amministrazione (leggi il segretario di Stato Powell), da qualche militare sul terreno e da una parte dell´intellighenzia neoconservatrice che lo ha praticamente definito un incapace.
Se un ritiro anticipato diventa possibile dipende, secondo Rumsfeld, dal fatto che le cose sul terreno non vanno poi così male come si tende a credere: negli ultimi due mesi le forze americane hanno «probabilmente» ucciso circa 1500 insurgents iracheni e una «ragionevole frazione» degli uomini legati a Zarqawi. Quanto al fatto che il terrorista giordano, ricercato numero uno in Iraq, sia ancora libero per Rumsfeld si spiega facilmente: «E´ come cercare un ago in un pagliaio. Le forze armate americane non sono organizzate, addestrate o equipaggiate per fare la caccia all´uomo».
Il segretario alla Difesa era (e resta) un sostenitore dell´esercito "leggero", dove il ruolo principale doveva essere riservato a quelle special forces che - almeno sulla carta - dovrebbero essere addestrate proprio per combattere terroristi e guerriglieri e condurre la caccia all´uomo in Afghanistan come in Iraq. A Bagdad e nel resto del paese ci sono ancora oggi circa 140 mila soldati americani, un numero alto come nell´estate del 2003 (subito dopo la guerra), quasi 25 mila in più rispetto allo scorso inverno e tre volte tanti rispetto a quelli previsti quando la guerra era stata pianificata. E stando agli ultimi piani messi a punto dai generali del Pentagono almeno 100-120 mila soldati potrebbero restare in Iraq anche per diversi anni (da quattro a sette).
Perché l´ipotesi di ritiro ventilata da Rumsfeld sia possibile, il nuovo governo che uscirà dalle elezioni di gennaio dovrebbe avere il controllo effettivo del paese. E dato che in alcune zone controllate dagli "insorti" - limitate come area ma molto importanti strategicamente - le elezioni probabilmente non si faranno non si capisce bene come ciò possa avvenire. I segnali di un possibile ritiro non si vedono neanche nelle caserme americane. A un numero sempre più alto di soldati che già sono stati in Iraq si chiede di tornare nel paese del Golfo, e - stando alla denuncia presentata da un deputato democratico del Colorado - «ai soldati viene detto che se non si ricandidano spontaneamente alla partenza, saranno comunque assegnati a divisioni che andranno in Iraq».
Delle elezioni in Iraq è tornata ieri a parlare anche Condoleezza Rice. Il consigliere per la Sicurezza nazionale - che ha definito false le accuse del New York Times sulla questione dei tubi di alluminio - ha detto che spetterà al «governo sovrano» del premier Allawi decidere chi può partecipare alle elezioni. Anche nel caso del leader religioso ribelle Moqtada al Sadr che aveva annunciato la sua intenzione: «Le milizie di Sadr sono state quasi completamente distrutte dagli attacchi americani e delle forze irachene e ciò spiega forse perché sta cambiando idea. Abbiamo imparato che con Sadr contano gli atti, non le parole. Deciderà Allawi». Quanto al rischio che elezioni non possano svolgersi dappertutto la Rice se l´è cavata con una battuta: «Dopotutto l´Iraq è in un momento di transizione. Non esistono elezioni di transizione perfette».
Intervistato dalla Fox sabato sera Rumsfeld ha ribadito un concetto che - sia pure in modo meno netto - aveva ventilato altre volte; le forze militari americane potrebbero ritirarsi dall´Iraq molto prima del previsto, a patto che il governo di Bagdad sia in grado di «gestire la situazione dal punto di vista della sicurezza».
Tutto al condizionale ovviamente, perché le condizioni che Rumsfeld pone al momento ancora non ci sono e al momento non sembra facile ci possano essere neanche dopo le elezioni di gennaio. Rumsfeld ha ammesso di essere rimasto sorpreso dalla resistenza anti-americana («la violenza crescerà in previsione delle elezioni di gennaio») ma si è detto convinto che non ci siano «al momento segni di una guerra civile»: «Il rischio è che i terroristi, gli estremisti e tutte quelle persone che vanno in giro a decapitare e a uccidere uomini, donne e bambini innocenti possano prendere il controllo dell´Iraq. Immaginate un paese guidato da gente che va in giro a staccare teste, una prospettiva drammatica».
La sortita televisiva costerà a Rumsfeld nuove critiche. Il segretario alla Difesa è il maggiore indiziato per il "pantano" iracheno ed è da mesi sotto accusa per non aver saputo prevedere come sarebbero andate le cose e per la mancanza di una strategia convincente e realistica sul dopoguerra. Accuse che non provengono solo dall´opposizione democratica - Kerry ne ha fatto uno dei suoi slogan elettorali preferiti - ma anche dai suoi nemici nell´amministrazione (leggi il segretario di Stato Powell), da qualche militare sul terreno e da una parte dell´intellighenzia neoconservatrice che lo ha praticamente definito un incapace.
Se un ritiro anticipato diventa possibile dipende, secondo Rumsfeld, dal fatto che le cose sul terreno non vanno poi così male come si tende a credere: negli ultimi due mesi le forze americane hanno «probabilmente» ucciso circa 1500 insurgents iracheni e una «ragionevole frazione» degli uomini legati a Zarqawi. Quanto al fatto che il terrorista giordano, ricercato numero uno in Iraq, sia ancora libero per Rumsfeld si spiega facilmente: «E´ come cercare un ago in un pagliaio. Le forze armate americane non sono organizzate, addestrate o equipaggiate per fare la caccia all´uomo».
Il segretario alla Difesa era (e resta) un sostenitore dell´esercito "leggero", dove il ruolo principale doveva essere riservato a quelle special forces che - almeno sulla carta - dovrebbero essere addestrate proprio per combattere terroristi e guerriglieri e condurre la caccia all´uomo in Afghanistan come in Iraq. A Bagdad e nel resto del paese ci sono ancora oggi circa 140 mila soldati americani, un numero alto come nell´estate del 2003 (subito dopo la guerra), quasi 25 mila in più rispetto allo scorso inverno e tre volte tanti rispetto a quelli previsti quando la guerra era stata pianificata. E stando agli ultimi piani messi a punto dai generali del Pentagono almeno 100-120 mila soldati potrebbero restare in Iraq anche per diversi anni (da quattro a sette).
Perché l´ipotesi di ritiro ventilata da Rumsfeld sia possibile, il nuovo governo che uscirà dalle elezioni di gennaio dovrebbe avere il controllo effettivo del paese. E dato che in alcune zone controllate dagli "insorti" - limitate come area ma molto importanti strategicamente - le elezioni probabilmente non si faranno non si capisce bene come ciò possa avvenire. I segnali di un possibile ritiro non si vedono neanche nelle caserme americane. A un numero sempre più alto di soldati che già sono stati in Iraq si chiede di tornare nel paese del Golfo, e - stando alla denuncia presentata da un deputato democratico del Colorado - «ai soldati viene detto che se non si ricandidano spontaneamente alla partenza, saranno comunque assegnati a divisioni che andranno in Iraq».
Delle elezioni in Iraq è tornata ieri a parlare anche Condoleezza Rice. Il consigliere per la Sicurezza nazionale - che ha definito false le accuse del New York Times sulla questione dei tubi di alluminio - ha detto che spetterà al «governo sovrano» del premier Allawi decidere chi può partecipare alle elezioni. Anche nel caso del leader religioso ribelle Moqtada al Sadr che aveva annunciato la sua intenzione: «Le milizie di Sadr sono state quasi completamente distrutte dagli attacchi americani e delle forze irachene e ciò spiega forse perché sta cambiando idea. Abbiamo imparato che con Sadr contano gli atti, non le parole. Deciderà Allawi». Quanto al rischio che elezioni non possano svolgersi dappertutto la Rice se l´è cavata con una battuta: «Dopotutto l´Iraq è in un momento di transizione. Non esistono elezioni di transizione perfette».
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