Da La Repubblica del 13/10/2004

IL CASO

Terrorismo se il colpevole è solo Al Qaeda

di Giuseppe D'Avanzo

Hosni Mubarak non crede che dietro l´assalto di Taba ci sia la mano di Al Qaeda. Il leader egiziano, nel colloquio con Ciampi, si è detto convinto che quella mano possa essere di qualche gruppo non identificato ostile a ogni processo di pace in Medio Oriente e, nell´incontro con Berlusconi, ha aggiunto che allo stato delle evidenze «non si può accusare nessuno». Il giudizio sospeso del capo di Stato egiziano ripropone interrogativi che da tre anni non sappiamo sciogliere: che cosa è Al Qaeda e che cosa davvero sappiamo di essa? Qual è la sua struttura e organizzazione e leadership? Quali sono oggi le forme di reclutamento? Esiste davvero un´organizzazione chiamata Al Qaeda dopo la distruzione dell´Afghanistan talebano? Se esiste, come agisce, come comunica, chi la indirizza e chi sul campo la guida? Come si sfugge alla tentazione di evocarne la presenza a ogni strage con il risultato di renderla più evanescente e inafferrabile e, al tempo stesso, invasiva e multiforme, impedendocene di fatto la comprensione e pregiudicando ogni efficace politica di contrasto e aggressione?

Gli Stati Uniti, in questo sforzo, appaiono confusi, frustrati dagli errori del passato, desiderosi di riscatto e vendetta fino all´avventura. Hanno commesso catastrofici errori di sottovalutazione. Ancora agli inizi degli anni Novanta, per dire, Ayman al Zawahiri, il braccio destro di Osama bin Laden, poteva visitare indisturbato la Silicon Valley anche se i manuali di antiterrorismo definivano Al Qaeda «una pericolosa organizzazione radicata a livello mondiale con attività collegate ai ceceni, al Kashmir, all´Algeria, all´Indonesia, alle Filippine e persino al Kosovo».

E nonostante questo patrimonio di informazioni e il pressing dell´intelligence, quando la notte del 12 settembre 2001 George W. Bush entra nella Situation Room della Casa Bianca non chiede di Al Qaeda, non chiede di Osama. Quel che chiede ai suoi uomini, lo ha raccontato Richard A. Clarke, allora capo dell´Antiterrorismo. Il presidente dice: «Vedete se è stato Saddam!». Bush ripropone nel modo più crudo la «teoria» già diffusa da consiglieri come Paul Wolfowitz: «Gli attacchi dell´11 settembre sono un´operazione troppo sofisticata e complicata perché un gruppo terrorista la porti a termine senza uno Stato sponsor: l´Iraq deve averli aiutati».

Il fatto è che - per ingenuità politica o maligna strategia: qui non importa - gli americani non sanno rinunciare al convincimento che dietro ogni terrorismo, dietro ogni cartello del terrore ci sia uno Stato. Si lasciano così sfuggire, secondo molti osservatori, il dato più significativo di Al Qaeda, la sovranazionalità. Lo ha, e in abbondanza, confermato la guerra in Afghanistan. Erano i talebani che avevano bisogno di bin Laden. Non bin Laden dei talebani. Il regime di Kabul è stato distrutto, non è stata distrutta Al Qaeda. Come dimostra ancora oggi il caso iracheno. Saddam Hussein è caduto, il terrorismo si è rafforzato e diffuso come le schegge di una bomba. Sembrano tenere dunque le analisi che indicano nelle comunità locali, e non negli Stati, l´appoggio più sicuro per le cellule terroristiche e nelle aree urbane delle grandi città - dove sono disponibili infrastrutture, anonimato, approvvigionamenti, comunicazione e risorse - «la dimensione di riferimento».

«La persistenza delle filiere del terrorismo islamista pone a Washington un problema fondamentale di intelligence nel doppio senso di comprensione e servizio segreto di informazioni. Quel che sembra mancare oggi agli Stati Uniti è l´interpretazione stessa del fenomeno» scrive Gilles Kepel nel suo ultimo libro (Fitna, guerra nel cuore dell´Islam). Il politologo francese ha ragione. L´America è «ancora debitrice di una visione del mondo riconducibile essenzialmente alla categoria del pensiero strategico della Guerra Fredda». Nella riflessione dei Neocon più radicali, come David Frum e Richard Perle, teste d´uovo dell´amministrazione, questa sovrapposizione è addirittura esplicita, dichiarata. «La guerra contro l´Islam estremista è altrettanto ideologica della Guerra Fredda» (Estirpare il Male).

Dopo tre anni, bisogna chiederci quanto l´incomprensione del fenomeno e l´eccesso di ideologia ci rendano arduo conoscere il nemico, problematico anticiparne le mosse, complesso individuarlo e annientarlo. Se non sai chi è il tuo nemico, come potrai sconfiggerlo? E´ già un problema, ma diventa un problema rovinoso se se ne valutano, anche soltanto per sommi capi, gli effetti.

Se vediamo Al Qaeda ovunque, dietro ogni strage o attentato a Bali, a Madrid, a Mosca, a Beslan, a Karachi, a Casablanca, a Riad, a Falluja gli effetti negativi sono doppi. Da un lato, si rafforza l´onnipotenza dell´organizzazione, si potenzia l´impatto di ogni azione (chiunque, anche isolato, l´abbia progettata ed eseguita). Lo splendore e l´appetibilità del suo marchio diventeranno, dilatandone la dimensione metaforica, attrattivi e irresistibili per le masse islamiche di Oriente e, peggio, per quei giovani arabi nati e vissuti in Occidente dove hanno studiato, si sono integrati, dove hanno ottenuto una nuova nazionalità e un altro passaporto e che ora - a quanto avvertono gli analisti più attenti - scelgono di riconvertirsi, di essere «born again, nati un´altra volta».

Dall´altro, conferma agli ideologi che, sì, loro hanno ragione. L´islam radicale deve essere affrontato e accerchiato e annientato come lo fu il comunismo, come se bin Laden fosse Lenin o Stalin. Per trovare una via d´uscita a questa tenaglia, che può rendere soltanto orribile il male di oggi, bisogna far largo nei nostri pensieri alla realtà e al buon senso. Dobbiamo forse impedirci di vivere e credere nel «mondo defattualizzato» che ci viene proposto dalle leadership politiche, dalla corte degli spin doctors, dalle minacce diffuse via internet, dalle intelligence varie, dai manipolatori delle opinioni pubbliche occidentali o islamici che siano.

«Mondo defattualizzato» è il mondo che, secondo Hannah Arendt (La menzogna in politica, riflessioni sui Pentagon Papers, 1971), ha reso possibile l´inganno della guerra del Vietnam. È un mondo dove non c´è alcun rapporto tra i fatti e le decisioni, dove «la divergenza tra i fatti - accertati dai servizi segreti, a volte dagli stessi responsabili dotati di poteri decisionali e spesso alla portata della gente ben informata - e le premesse, le teorie e le ipotesi, in base alle quali le decisioni venivano finalmente prese, è totale».

Potrà essere utile allora riportare i fatti nella nostra vita e a fondamento delle nostre opinioni, chiedere che siano i fatti e non le "teorie" o il furore ideologico a orientare le decisioni pubbliche. Se avessimo chiesto più fatti forse avremmo saputo prima che non c´era alcuna complicità terroristica tra Saddam Hussein e Osama o che non c´era nessuna arma di distruzione di massa in Iraq. Seguendo i fatti forse sarebbe stato possibile scoprire che Al Qaeda, quel che appare essere Al Qaeda, è soprattutto opportunista, caotica, non sistemica. Colpisce quando può, come può, dove può per tenere alto il clima di terrore e dimostrare l´impotenza degli interventi militari. Afferrando i fatti, non avremmo visto dietro la strage di Beslan la mano di Osama bin Laden perché non c´erano «arabi» tra i massacratori di Basaev, come ci ha assicurato Vladimir Putin che si è guadagnato così l´ingresso d´onore nel club dell´antiterrorismo. Sapremmo invece che quel conflitto impegna soltanto russi e ceceni. Sapremmo quanto sia avventuroso sostenere oggi, come fa Washington, che le tragiche azioni di Abu Mussa al Zarqawi nel "triangolo sunnita" sono affare di Al Qaeda. Sapremmo che non abbiamo di fronte il terrorismo, ma i terrorismi. E che ognuna di queste malattie va aggredita e curata con una sua medicina e con un suo medico e non con una pioggia indiscriminata di fuoco e di sangue. Eviteremmo di scoprire, il giorno in cui Osama dovesse essere preso (ammesso che sia ancora vivo), che questa guerra è davvero infinita.

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