Da La Stampa del 17/10/2004
Originale su http://www.lastampa.it/_web/_P_VISTA/spinelli/archivio/spinelli041017.asp

Turchia, traguardo per l'Europa

di Barbara Spinelli

L’allargamento alla Turchia, se il prossimo vertice dei capi di Stato e di governo approverà le proposte della Commissione e se il negoziato giungerà a conclusioni propizie, sarà la seconda grande scelta strategica dell’Europa, dopo quella che ha esteso l’Unione sino ai confini con la Russia, a seguito dell’allargamento a dieci nuovi Stati nel maggio di quest’anno. Con la Turchia, l’Europa si trova ad avere ai propri confini zone turbolente ma essenziali per gli equilibri mondiali, fin qui governate non senza capricciose incoerenze dalla sola forza unilaterale americana. Zone che includono Siria, Iraq, Iran, dunque l’insieme del Medio Oriente e buona parte dell’Asia centrale. Se l’Europa vuol evitare uno scontro di civiltà fra occidente e Islam, è in quelle zone che dovrà manifestare la sua inventività e la sua forza d’attrazione, la sua fermezza antiterroristica, le sue idee istituzionali e i suoi disegni di crescita economica. Dò per scontato l’allargamento alla Turchia, perché sarà difficile dire no a un Paese cui la candidatura è stata proposta dalla Comunità fin dagli Anni Settanta. Meno scontato è che gli europei capiscano per intero la dimensione del compito che hanno davanti, se desiderano che l’operazione abbia successo.

È un compito che dovrà avere come protagonista attivo l’Europa, e non ciascuno Stato per proprio conto. Solo che questa Europa che agisce al singolare, in nome dei vari Paesi membri, ancora non esiste: bisogna ostinarsi a ricominciarne la costruzione, la correzione, il perfezionamento. Da soli, i singoli Stati non riusciranno mai a spiegare al candidato turco quel che occorre fare perché l’Unione funzioni, e non si disgreghi sotto la spinta d’un allargamento virtualmente squilibrante: dovrebbero raccontargli la verità su come la Costituzione è stata resa imperfetta da veti nazionali, e su come essi stessi - gli Stati - hanno impedito che nascesse una comune politica estera e di difesa, capace di superare il diritto di veto implicito nella regola dell’unanimità e di attenuare per questa via gli squilibri di potere interni alla Comunità.

Certo, l’ingresso della Turchia accrescerebbe il peso strategico del nostro continente, per ragioni evidenti che già ora conosciamo. Ma al tempo stesso sappiamo che l’ipotesi di quest’allargamento crea un vasto disagio, nella vecchia Europa come in quella dei Venticinque. In parte è un disagio culturale-religioso, che va contrastato con argomenti razionali convincenti, e non alzando semplicemente le spalle con disprezzo. Le nostre popolazioni vanno convinte che l’Islam è parte non solo della storia passata d’Europa ma anche di quella futura. Abbiamo già ora 20 milioni di musulmani nell’Unione, e il progetto di assorbire l’Islam laico e democratico della Turchia offre due vantaggi rilevanti: è un esempio che si dà ai musulmani del mondo intero, e toglie alle presenti lotte antiterroristiche la componente - mortifera - di scontro di civiltà e di guerra religiosa cristiano-ebraico-musulmana.

Ma c’è anche un altro disagio, che potrebbe rivelarsi ben più arduo da fronteggiare ed è lungi dall’essere infondato. Il fatto è che lo Stato turco non può entrare nell’Unione così come essa oggi è fatta - con la Costituzione che si è data e che magari neppure sarà ratificata unanimemente, con le risorse e le istituzioni labili che possiede, con il peso preponderante che hanno ancor oggi le sovranità fittizie ma non meno assolutiste degli Stati - se l’Europa non fa un ulteriore passo per unificarsi politicamente, tale da obbligare gli Stati che la compongono ad abbandonare porzioni più consistenti di sovranità.

In un certo senso, tutti gli Stati e l’Unione in quanto tale dovrebbero aggiungere un paragrafo nelle proprie costituzioni, simile a quello che i costituenti italiani hanno escogitato, con speciale saggezza, dopo la sconfitta del nazionalismo fascista. Si tratta dell’articolo 11 della nostra costituzione, che vorrei qui citare per esteso: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Tutti gli Stati europei dovrebbero esser pronti ad adoperarsi per soluzioni pacifiche dei conflitti internazionali, mettendo al contempo i propri sforzi e le proprie forze al servizio di un’autorità superiore incaricata di affrontare sovrannazionalmente le fondamentali questioni di pace e di guerra.

Da questo punto di vista l’Europa è molto più moderna e innovativa degli Stati Uniti. Chi voglia rileggere il Manifesto di Ventotene, vedrà una cosa singolare: ai tempi d’oggi, sono gli Stati Uniti a esser afflitti dalle malattie connesse alla sovranità esclusiva degli Stati-nazione, che il Manifesto denuncia. Sono gli Stati Uniti a insistere nella politica che privilegia l’egemonia e l’instabile equilibrio delle potenze, che il Manifesto si propone di superare attraverso il disegno d’una federazione di Stati. Sono gli Stati Uniti ad aver bisogno di spazi vitali e di geopolitica, tali da garantir loro una forma imperiale di dominio.

L’ingresso della Turchia può esser dunque una formidabile occasione storica, per rafforzare l’Islam moderato e per dare all’Europa la decisiva dimensione strategica che oggi le manca. E ancora una volta, come per l’allargamento ultimato nel maggio scorso, il metodo europeo di esportazione della democrazia potrebbe rivelarsi un modello per il mondo: non dimentichiamo che negli ultimi due anni, per ottemperare ai criteri di Copenhagen, la Turchia ha promulgato ben 460 nuove leggi che fin da oggi cambiano il suo sistema giuridico, il rapporto tra civili e militari, il rispetto dovuto alle minoranze. Ciascuna di queste leggi è costitutiva della cultura europea.

Ma la Turchia non può entrare, nelle condizioni attuali. È un Paese di più di 67 milioni di abitanti (pressoché l’equivalente dei dieci Paesi messi assieme che nel 2004 sono entrati nell’Unione) e il suo Stato è per antica consuetudine assai geloso della propria sovranità. Verso la metà del secolo avrà 100 milioni di abitanti, e già nel 2015-2020 supererà demograficamente la Germania, che come l’Italia è una nazione in declino. A questo punto bisogna che gli Europei decidano veramente di limitare la sovranità dei propri Stati-nazione, se non vogliono che il vigore demografico della Turchia sfasci sul nascere l’Europa-potenza che a parole continua a esser invocata. Se non vogliono che in Europa entri una seconda Inghilterra, interessata come Londra a dividere l’Unione e non a irrobustirne l’autorevolezza e l’efficacia. Bisogna che sia compiuto un passo decisivo, che l’ingresso della Turchia diventi un’opportunità per i turchi ma anche per la crescita di un’Unione capace di esistere e divenire soggetto storico anziché oggetto.

Per conseguire tale scopo occorrerà migliorare radicalmente la costituzione che i governi hanno appena approvato, bisognerà osare rompere il patto di reciproca non aggressione tra sovranità statali intangibili che fonda in ultima analisi l’ibrido costituzionale su cui ci si è messi d’accordo (non è una vera costituzione e non è un vero trattato internazionale, quello approvato dai capi di Stato e di governo dell’Unione: è un oggetto spurio, dunque provvisorio, e comunque del tutto inadatto ad assorbire senza traumi una semi-potenza come la Turchia). E se alcuni popoli diranno no alla costituzione, nei referendum indetti non solo in Inghilterra ma anche nel Paese motore dell’Europa che è la Francia, bisognerà che un cerchio più ristretto di Stati membri decida forme d’integrazione più avanzate senza attendere gli altri, e che questo cerchio dia a se stesso una costituzione e istituzioni comuni degne del loro nome. A quel punto non sarà un’impresa completamente impervia, assorbire la Turchia, e i benefici che ne trarremo peseranno più degli inconvenienti. Ankara potrà entrare nel cerchio ristretto, se vorrà mettersi al servizio dell’Europa-potenza. Se non lo vorrà resterà fuori dal cerchio, assieme ai Paesi dell’Unione che non hanno seguito la locomotiva delle avanguardie e che hanno delegato porzioni minori di sovranità alle autorità sovrannazionali.

La Turchia forse è la grande occasione che ci viene offerta, e come tale converrebbe comunque viverla, se non ci si vuol limitare a pianger sul passato, a inorridire davanti al futuro, e a usare parole prive di rapporto con la realtà. Questo significa che bisogna prendere la data d’ingresso della Turchia (8 anni nella migliore delle ipotesi, dieci o più se le trattative saranno lente) come un nuovo traguardo per la costruzione dell’Europa politica. Non abbiamo dato all’Europa un’autentica costituzione, che fosse adatta all’allargamento del 2004, e quel primo turno può dirsi in parte fallito. La Turchia deve e può spronarci ora a non fallire il secondo turno, che potrebbe divenire l’obiettivo che i governi dell’Unione si danno a partire dall’inizio del negoziato con Ankara. E il secondo turno verrà, a meno di rottura delle trattative euro-turche: non in un nebuloso avvenire, ma a una data precisa. Questa data coincide con l’ingresso della Turchia nell’Unione e dovrebbe esser messa nero su bianco nei piani di lavoro dei governi europei: entro sette-otto anni, e cioè prima che la Turchia entri nell’Unione, dobbiamo aver edificato quell’Europa-soggetto politico che grazie anche alla Turchia renderemo più forte e protagonista nel mondo. Darsi una scadenza temporale è molto importante, per la riuscita di qualsiasi impresa. L’euro non sarebbe mai nato, se non fosse esistito il vincolo severo di una data non prorogabile.

Quel giorno sapremo quali sono i confini della nostra Unione. Non saranno confini religiosi, né etnici, né prioritariamente culturali. Saranno confini costituzionali, e il patriottismo stesso degli europei s’affiancherà ai patriottismi locali e al patriottismo nazionale, divenendo un patriottismo di tipo laico-costituzionale.

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