Da La Stampa del 23/11/2004
Originale su http://www.lastampa.it/redazione/news_high_tech/archivio/0411/copyrigh...
Le tesi di Lawrence Lessig, esperto di cyberdiritto
«Ma il copyright in Rete non è morto»
di Lawrence Lessig
Possediamo leggi speciali per proteggerci dal furto di automobili, o di barche, ma non abbiamo leggi speciali per proteggerci dal furto di grattacieli. I grattacieli bastano a difendere se stessi. L’architettura dello spazio reale, o - per porla in modo più suggestivo - il suo «codice di spazio reale», protegge i grattacieli molto più efficacemente di quanto non faccia il diritto. L’architettura è alleata dei grattacieli (rendendoli impossibili a muoversi); è nemica di automobili e barche (poiché le rende piuttosto facili a muoversi).
In questo spettro, dalle automobili alle grandi costruzioni, la proprietà intellettuale è in qualche modo dalla parte delle auto, e si differenzia alquanto dalle grandi costruzioni. Di fatto, per come il mondo è ora, la proprietà intellettuale ripaga molto peggio di automobili e barche. Se qualcuno ruba la mia auto, per lo meno lo verrei a sapere; potrei chiamare la polizia, e questa potrebbe tentare di ritrovarla. Se qualcuno effettua una copia illegale del mio articolo (riproducendolo senza pagare per questo), non necessariamente lo verrei a sapere.
Le vendite potrebbero diminuire, la mia reputazione crescere (o diminuire), ma non vi è modo di rintracciare il motivo della caduta delle vendite a questo furto individuale, come non c’è modo di legare la crescita (o caduta) della fama a questa distribuzione sussidiaria.
Quando i teorici della Rete pensarono per la prima volta alla proprietà intellettuale, sostennero che le cose erano sul punto di peggiorare molto. «Tutto ciò che sappiamo sulla proprietà intellettuale - ci dissero - è errato». La proprietà non poteva essere controllata sulla Rete; il copyright non aveva alcun senso. Gli autori avrebbero dovuto trovare nuovi modi per fare soldi nel cyberspazio, poiché la tecnologia aveva distrutto la possibilità di produrre reddito controllando le copie. Le ragioni erano chiare: la Rete è un mezzo digitale. Le copie digitali sono perfette e gratuite. Si può copiare una canzone di un cd in un nuovo formato chiamato mp3. La canzone può poi essere inviata su usenet a milioni di persone, gratuitamente. La natura della Rete, ci dissero, renderà il controllo del copyright impossibile. Il copyright era dato per morto.
Vi era qualcosa di strano in questa argomentazione, fin dal suo principio. Tradiva un certo passaggio dall’essere al dover essere: «Il modo in cui il cyberspazio è fatto, è come dev’essere». Il cyberspazio era un luogo ove «infinite copie potevano essere fatte gratuitamente», ma perché, esattamente? Per via del suo codice. Infinite copie potevano essere realizzate perché il codice lo permetteva. Allora perché il codice non poteva essere cambiato? Perché non potevamo immaginare un diverso codice, che proteggesse meglio la proprietà intellettuale? (...)
Si considerino le proposte di Mark Stefik del Parc Xerox. In una serie di articoli, Stefik descrive ciò che chiama trusted systems per la gestione del copyright. I trusted systems permettono ai possessori di proprietà intellettuali di controllare l’accesso a quella proprietà, e di misurarne perfettamente l’uso. Questo controllo sarebbe stato codificato nel software che distribuisce (e quindi ne regola l’accesso) il materiale protetto da copyright. Tale controllo sarebbe estremamente raffinato, e permetterebbe al detentore del copyright di avere uno straordinario potere sul materiale protetto da copyright.
Ecco un modo per rappresentare la situazione: oggi, quando si compra un libro, si ha «diritto» di fare una serie di cose con esso: lo si può leggere una o cento volte. Si può prestarlo a un amico. Se ne possono fotocopiare le pagine, o scansionarlo con il proprio computer. Lo si può bruciare, usare come fermacarte, o venderlo. Lo si può mettere sulla propria libreria e non aprirlo mai.
Alcune di queste cose possono essere fatte perché la legge dà il diritto di farle: si può vendere il libro, per esempio, poiché la legge sul copyright dà esplicitamente questo diritto. Alcune di queste cose possono essere fatte perché non vi è modo di impedire che vengano fatte: un libraio potrebbe vendere a qualcuno il libro a un prezzo poiché promette di leggerlo una volta sola, a un prezzo diverso a qualcun altro che lo voglia leggere cento volte. Non c’è modo con cui il venditore possa veramente sapere se lo si leggerà una o cento volte, e quindi non c’è modo per lui di sapere se si è obbedito al contratto. In via di principio, il libraio potrebbe includere un ufficiale di polizia nella vendita di ciascun libro, sì che questi segua il lettore e si assicuri che usi il libro come promesso. I costi sarebbero ovviamente proibitivi. Il venditore è incastrato. Ma che accadrebbe se ciascuno di questi diritti potesse essere controllato, parcellizzato e venduto separatamente? (...)
Stefik ha trasformato gli aeroplani in grattacieli: ha descritto un modo per cambiare il codice del cyberspazio al fine di render possibile la protezione della proprietà intellettuale in un modo più efficace di quanto sia possibile nello spazio reale.
In questo spettro, dalle automobili alle grandi costruzioni, la proprietà intellettuale è in qualche modo dalla parte delle auto, e si differenzia alquanto dalle grandi costruzioni. Di fatto, per come il mondo è ora, la proprietà intellettuale ripaga molto peggio di automobili e barche. Se qualcuno ruba la mia auto, per lo meno lo verrei a sapere; potrei chiamare la polizia, e questa potrebbe tentare di ritrovarla. Se qualcuno effettua una copia illegale del mio articolo (riproducendolo senza pagare per questo), non necessariamente lo verrei a sapere.
Le vendite potrebbero diminuire, la mia reputazione crescere (o diminuire), ma non vi è modo di rintracciare il motivo della caduta delle vendite a questo furto individuale, come non c’è modo di legare la crescita (o caduta) della fama a questa distribuzione sussidiaria.
Quando i teorici della Rete pensarono per la prima volta alla proprietà intellettuale, sostennero che le cose erano sul punto di peggiorare molto. «Tutto ciò che sappiamo sulla proprietà intellettuale - ci dissero - è errato». La proprietà non poteva essere controllata sulla Rete; il copyright non aveva alcun senso. Gli autori avrebbero dovuto trovare nuovi modi per fare soldi nel cyberspazio, poiché la tecnologia aveva distrutto la possibilità di produrre reddito controllando le copie. Le ragioni erano chiare: la Rete è un mezzo digitale. Le copie digitali sono perfette e gratuite. Si può copiare una canzone di un cd in un nuovo formato chiamato mp3. La canzone può poi essere inviata su usenet a milioni di persone, gratuitamente. La natura della Rete, ci dissero, renderà il controllo del copyright impossibile. Il copyright era dato per morto.
Vi era qualcosa di strano in questa argomentazione, fin dal suo principio. Tradiva un certo passaggio dall’essere al dover essere: «Il modo in cui il cyberspazio è fatto, è come dev’essere». Il cyberspazio era un luogo ove «infinite copie potevano essere fatte gratuitamente», ma perché, esattamente? Per via del suo codice. Infinite copie potevano essere realizzate perché il codice lo permetteva. Allora perché il codice non poteva essere cambiato? Perché non potevamo immaginare un diverso codice, che proteggesse meglio la proprietà intellettuale? (...)
Si considerino le proposte di Mark Stefik del Parc Xerox. In una serie di articoli, Stefik descrive ciò che chiama trusted systems per la gestione del copyright. I trusted systems permettono ai possessori di proprietà intellettuali di controllare l’accesso a quella proprietà, e di misurarne perfettamente l’uso. Questo controllo sarebbe stato codificato nel software che distribuisce (e quindi ne regola l’accesso) il materiale protetto da copyright. Tale controllo sarebbe estremamente raffinato, e permetterebbe al detentore del copyright di avere uno straordinario potere sul materiale protetto da copyright.
Ecco un modo per rappresentare la situazione: oggi, quando si compra un libro, si ha «diritto» di fare una serie di cose con esso: lo si può leggere una o cento volte. Si può prestarlo a un amico. Se ne possono fotocopiare le pagine, o scansionarlo con il proprio computer. Lo si può bruciare, usare come fermacarte, o venderlo. Lo si può mettere sulla propria libreria e non aprirlo mai.
Alcune di queste cose possono essere fatte perché la legge dà il diritto di farle: si può vendere il libro, per esempio, poiché la legge sul copyright dà esplicitamente questo diritto. Alcune di queste cose possono essere fatte perché non vi è modo di impedire che vengano fatte: un libraio potrebbe vendere a qualcuno il libro a un prezzo poiché promette di leggerlo una volta sola, a un prezzo diverso a qualcun altro che lo voglia leggere cento volte. Non c’è modo con cui il venditore possa veramente sapere se lo si leggerà una o cento volte, e quindi non c’è modo per lui di sapere se si è obbedito al contratto. In via di principio, il libraio potrebbe includere un ufficiale di polizia nella vendita di ciascun libro, sì che questi segua il lettore e si assicuri che usi il libro come promesso. I costi sarebbero ovviamente proibitivi. Il venditore è incastrato. Ma che accadrebbe se ciascuno di questi diritti potesse essere controllato, parcellizzato e venduto separatamente? (...)
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