Da La Stampa del 11/01/2005
Chirac e i giornalisti in Iraq
Chi non risica non informa
di Mimmo Candito
Dopo la sparizione di Florence Aubenas, inviata di Libération, la dichiarazione del presidente Chirac - «Le autorità francesi sconsigliano formalmente l'invio di giornalisti in Iraq» - non ha trovato l'attenzione che le si doveva dare. Certamente Chirac ha parlato con la responsabilità che ha un capo di Stato, garante della vita e della sicurezza dei suoi concittadini. E, come un buon padre di famiglia, ha anche aggiunto: «Se ci fossero meno giornalisti laggiù, ci sarebbero meno rischi».
Anche se monsieur de la Palisse non avrebbe detto di meglio, che un Capo di Stato privilegi la sicurezza dei connazionali è comunque una scelta legittima, anche ampiamente condivisibile. S'apre qualche linea di perplessità quando l'esortazione a non partire viene giustificata con quanto Chirac ha detto ai giornalisti: «Voi non sapete a quali pesanti sforzi si sia obbligati per recuperare i vostri colleghi sequestrati. Tutto questo comporta un costo globale molto pesante per la nazione». Messo nei termini crudi d'un affare di quattrini, e d'impegno per i servizi di sicurezza, il problema rischia di svilire la drammaticità - astratta sì, ma seria - che invece si trascina.
Chirac non è un giornalista, e non necessariamente deve sentirsi coinvolto nei problemi della comunicazione giornalistica. Però, quando il direttore di Libération gli ricorda che «il giorno in cui a Baghdad non ci saranno più giornalisti, allora laggiù le principali fonti d'informazione saranno il ministro americano Rumsfeld e il capomanipolo di Al Qaeda, Zarkawi», anche per l'uomo politico Chirac, e soprattutto per il Capo d'uno Stato di solido radicamento democratico, una forma di ripensamento apparirebbe necessaria.
Perché quello che lui dice e quello che gli ribatte il direttore Serge July sono gli elementi essenziali d'un dibattito sul cui risultato si misura la qualità d'una democrazia. E se questo risultato gerarchizza «formalmente» l'interesse per la sicurezza (e per i quattrini) sull'interesse per una forma vitale della democrazia qual è il diritto-dovere della informazione, anche quando questo comporta un costo elevatissimo, allora qualcosa davvero sta mutando nella cultura delle nostre società.
È, appunto, un problema «culturale», cioè di logos, di pensiero, di struttura e di articolazione ideologica, prima ancora che di misura reale del confronto degli interessi in gioco. Al punto che preoccupa - o comunque sconcerta - non tanto che il presidente Chirac abbia tirato in mezzo le casse dello Stato e la sua personale preoccupazione, per chiedere ai media di fare un passo indietro, quanto piuttosto il silenzio diffuso, e la quasi totale assenza di reazioni, sull'avvertimento dell'Eliseo. Perché quel silenzio e quella latitanza di reattività finiscono col denunciare che in una società dominata dalla «enfatizzazione dell'apparenza», rispetto alla «lettura della realtà», davvero il giornalismo sta perdendo la presa che ha sempre avuto nella elaborazione delle forme della conoscenza.
La centralità sociale del giornalismo - geneticamente innestata nella nuova «società dell'informazione» - rischia ora di mutare la natura stessa del giornalismo, che va perdendo il suo tradizionale ruolo di mediazione nella definizione della realtà, a vantaggio di un ruolo puramente veicolare, di trasporto di flussi informativi gestiti dalle fonti. Che Chirac non se ne preoccupi, può anche starci. Ma che nessuno se ne preoccupi, questo è un forte segnale d'allarme.
Certo, oggi l'informazione «crea» la realtà, più ancora che rispecchiarla, come faceva un tempo. E le relazioni tra il potere (Foucault) e il giornalismo ne sono una diretta conseguenza. Ma la rivendicazione del valore della testimonianza diretta dovrebbe continuare a reggere il confronto tra i media e il potere anche quando le tecnologie e gl'imbellettamenti del «news management» circuiscono di tentazioni irresistibili il lavoro sul campo. I rischi che il giornalismo affronta - sia De Mauro o siano la Cutuli o la Alpi - fanno parte delle regole del mestiere. È amaro se il giusto calcolo della prudenza diventi l'occasione che santifica la nascita del post-giornalismo, quello che dimentica il valore insostituibile della lettura della realtà a tutto vantaggio d'una «costruzione» della realtà.
Anche se monsieur de la Palisse non avrebbe detto di meglio, che un Capo di Stato privilegi la sicurezza dei connazionali è comunque una scelta legittima, anche ampiamente condivisibile. S'apre qualche linea di perplessità quando l'esortazione a non partire viene giustificata con quanto Chirac ha detto ai giornalisti: «Voi non sapete a quali pesanti sforzi si sia obbligati per recuperare i vostri colleghi sequestrati. Tutto questo comporta un costo globale molto pesante per la nazione». Messo nei termini crudi d'un affare di quattrini, e d'impegno per i servizi di sicurezza, il problema rischia di svilire la drammaticità - astratta sì, ma seria - che invece si trascina.
Chirac non è un giornalista, e non necessariamente deve sentirsi coinvolto nei problemi della comunicazione giornalistica. Però, quando il direttore di Libération gli ricorda che «il giorno in cui a Baghdad non ci saranno più giornalisti, allora laggiù le principali fonti d'informazione saranno il ministro americano Rumsfeld e il capomanipolo di Al Qaeda, Zarkawi», anche per l'uomo politico Chirac, e soprattutto per il Capo d'uno Stato di solido radicamento democratico, una forma di ripensamento apparirebbe necessaria.
Perché quello che lui dice e quello che gli ribatte il direttore Serge July sono gli elementi essenziali d'un dibattito sul cui risultato si misura la qualità d'una democrazia. E se questo risultato gerarchizza «formalmente» l'interesse per la sicurezza (e per i quattrini) sull'interesse per una forma vitale della democrazia qual è il diritto-dovere della informazione, anche quando questo comporta un costo elevatissimo, allora qualcosa davvero sta mutando nella cultura delle nostre società.
È, appunto, un problema «culturale», cioè di logos, di pensiero, di struttura e di articolazione ideologica, prima ancora che di misura reale del confronto degli interessi in gioco. Al punto che preoccupa - o comunque sconcerta - non tanto che il presidente Chirac abbia tirato in mezzo le casse dello Stato e la sua personale preoccupazione, per chiedere ai media di fare un passo indietro, quanto piuttosto il silenzio diffuso, e la quasi totale assenza di reazioni, sull'avvertimento dell'Eliseo. Perché quel silenzio e quella latitanza di reattività finiscono col denunciare che in una società dominata dalla «enfatizzazione dell'apparenza», rispetto alla «lettura della realtà», davvero il giornalismo sta perdendo la presa che ha sempre avuto nella elaborazione delle forme della conoscenza.
La centralità sociale del giornalismo - geneticamente innestata nella nuova «società dell'informazione» - rischia ora di mutare la natura stessa del giornalismo, che va perdendo il suo tradizionale ruolo di mediazione nella definizione della realtà, a vantaggio di un ruolo puramente veicolare, di trasporto di flussi informativi gestiti dalle fonti. Che Chirac non se ne preoccupi, può anche starci. Ma che nessuno se ne preoccupi, questo è un forte segnale d'allarme.
Certo, oggi l'informazione «crea» la realtà, più ancora che rispecchiarla, come faceva un tempo. E le relazioni tra il potere (Foucault) e il giornalismo ne sono una diretta conseguenza. Ma la rivendicazione del valore della testimonianza diretta dovrebbe continuare a reggere il confronto tra i media e il potere anche quando le tecnologie e gl'imbellettamenti del «news management» circuiscono di tentazioni irresistibili il lavoro sul campo. I rischi che il giornalismo affronta - sia De Mauro o siano la Cutuli o la Alpi - fanno parte delle regole del mestiere. È amaro se il giusto calcolo della prudenza diventi l'occasione che santifica la nascita del post-giornalismo, quello che dimentica il valore insostituibile della lettura della realtà a tutto vantaggio d'una «costruzione» della realtà.
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