Da La Repubblica del 01/02/2005

Chirac, Schroeder e Putin chiamano per congratularsi. Ma si teme la guerra civile fra vincitori e perdenti delle urne

La Casa Bianca dopo il trionfo studia il piano d'uscita dall'Iraq

Il fronte del no alla guerra plaude all'esito del voto

Ieri lunghi colloqui fra il presidente, la Rice e l'ambasciatore a Bagdad, Negroponte

di Alberto Flores D'Arcais

NEW YORK - Alla Casa Bianca una delle soddisfazioni più grandi nel day-after delle elezioni irachene è stata per la telefonata con Jacques Chirac. Una telefonata lunga - «quindici minuti», puntualizza meticolosamente un portavoce - in cui l' "alleato-nemico" della vecchia Europa, l'uomo politico che più di ogni altro aveva criticato la guerra in Iraq, ha dovuto ammettere che quella di domenica «è stata una tappa importante nella ricostruzione politica dell'Iraq».

Incassati i complimenti di amici e avversari - anche la Germania di Schroeder e la Russia di Putin si sono rallegrate del successo elettorale - George W. Bush ha passato diversi momenti della giornata di ieri per mettere a punto la strategia dei prossimi mesi, quelli che dovranno vedere insieme ai maggiori poteri degli iracheni il progressivo sganciamento delle forze armate americane. Lo ha fatto con i suoi collaboratori più fidati, dal neo-segretario di Stato Condoleezza Rice - che la settimana prossima sarà in Europa per incontrare gli alleati della Nato - all'ambasciatore a Bagdad Negroponte.

Nell'amministrazione americana il clima è positivo ma nessuno si lascia prendere da troppa euforia. La giornata elettorale è andata al meglio delle previsioni, ma adesso occorre attendere i risultati del voto - vedere cioè quali saranno i rapporti di forza usciti dalle urne - e mettere a punto la exit strategy. A Washington non sottovalutano il fatto che oltre dalla fame di democrazia l'alta affluenza alle urne (soprattutto in campo sciita) possa essere stata agevolata dagli appelli al voto dei capi religiosi che vedono nel processo elettorale la possibilità di rendere più rapido il ritiro delle truppe americane.

Nessuno vuole fissare una data precisa, sia al Pentagono che al dipartimento di Stato su questo si ottengono solo no comment. E nessuno vuole rispondere direttamente al ministro degli Interni iracheno che ha sostenuto che da qui a 18 mesi non ci sarà più bisogno dei marines. «Diciotto mesi, e chi può saperlo? Forse di meno, forse di più, dipende», dice a Repubblica un alto funzionario del dipartimento di Stato, ma a Foggy Bottom la parola d'ordine è «confermare la linea del capo», cioè le cose che ha detto pubblicamente George W. Bush: «Ce ne andremo quando gli iracheni saranno in grado di difendersi da soli».

Per farlo l'esercito iracheno dovrà essere a pieno regime, avere bene addestrati - ed equipaggiati per combattere una guerriglia e un terrorismo che «durerà ancora degli anni» - i circa 120mila effettivi di cui ha parlato Condoleezza Rice. Secondo un rapporto del Centro di Studi Internazionali e Strategici di Washington, i soldati iracheni che corrispondono alle aspettative americane sono attualmente poco più del 10 per cento di quella cifra.

Al Pentagono sono pronti i diversi scenari, dal più ottimistico a quello che prevede la catastrofe. Uno dei focus su cui gli analisti del ministero della Difesa si sono concentrati di più è quello che riguarda la possibile guerra civile, strisciante o aperta, tra gruppi religiosi, clan politici e diverse etnie. E' un tema che sta particolarmente a cuore ai curdi del nord, che temono un nuovo tradimento americano come ai tempi di Bush padre o la possibilità che Washington dia mano libera alla Turchia per ingerire con pressioni, o magari anche con la forza, sugli assetti interni del nuovo governo iracheno.

L'altro nodo aperto resta quello dell'Iran e dei rapporti che il nuovo Iraq vorrà avere e avrà con il regime teocratico degli ayatollah. «Fino a quando ci saranno i marines oltre confine, a Teheran staranno tranquilli, di questo ne siamo sicuri; perché neanche il più estremista degli ayatollah ha interesse a una provocazione che vedrebbe una risposta immediata da parte della Casa Bianca. Ma questo è un altro punto che rende incerto il nostro disimpegno».

Anche al Pentagono sono convinti che da oggi la diplomazia giocherà un ruolo sempre più importante. La giornata di domenica è stata meno violenta di quanto gli insurgents (e di chi avrebbe voluto che le cose andassero male) avessero promesso perchè un paio di fattori hanno contribuito a renderla relativamente tranquilla: il divieto di circolazione, che ha reso complicati i movimenti, e la grande quantità di arresti preventivi operati nei giorni precedenti il voto.

Ma ha funzionato anche una sorta di "diplomazia sotterranea" messa in atto dai comandi americani in Iraq con quei gruppi di ribelli che non sono direttamente legati a Zarqawi o a Al Qaeda e con i quali sono riusciti a fare un patto di non aggressione durante la giornata elettorale. Una strategia che ha funzionato «meglio del previsto, facendo ricredere anche i più scettici». Una strategia di cui ci sarà grande bisogno anche nei prossimi mesi.

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