Da La Repubblica del 16/04/2005
Il crepuscolo del Cavaliere
di Massimo Giannini
IMPALLINATO come un qualsiasi governo Forlani, impastoiato nei riti peggiori della Prima Repubblica, Silvio Berlusconi conosce la seconda crisi della sua alterna parabola ultradecennale da presidente del Consiglio. Nel ‘94 lo affondò Umberto Bossi, urlando contro i «porci democristiani» che osarono minacciare le «pensioni padane», propiziando la lunga e dolorosa traversata nel deserto del governo Dini. Nel 2005 lo affonda il post-democristiano Marco Follini, rompendo con "il fronte del Nord" leghista che ha preso in ostaggio la coalizione, snaturando irreparabilmente il progetto di un centrodestra responsabile e presentabile.
Manca il sigillo "tecnico" delle dimissioni del primo ministro. Ma dopo il ritiro della delegazione Udc dal governo, per Berlusconi è già, a tutti gli effetti, crisi politica. Il Cavaliere avrebbe un solo dovere. Recarsi dal Capo dello Stato per riferirgli l´esito negativo del vertice della Cdl, come aveva promesso di fare nell´incontro al Quirinale di tre giorni fa. Rimettere nelle mani di Ciampi il suo mandato. E poi chiedere immediatamente le elezioni anticipate. Sarebbe la soluzione più corretta e lineare sul piano istituzionale. E invece Berlusconi la rifiuta, confermando la sua natura "aliena", al sistema di regole e alla prassi costituzionale: la crisi di governo non è un suo affare personale, che può regolare nei modi e nei tempi che gli convengono di più, come se si trattasse di un consiglio di amministrazione della Fininvest.
Ma a questo punto, il voto sarebbe anche la soluzione più sensata e conveniente dal punto di vista politico. Il Cavaliere non può governare senza l´Udc. Non si può illudere nemmeno di tirare a campare con l´appoggio esterno dei centristi. Sarebbe uno stillicidio estenuante per quel che resta della Cdl, e un´agonia insopportabile per il Paese. Senza Udc e Nuovo Psi il perimetro del centrodestra si riduce a 298 seggi alla Camera (rispetto a una maggioranza di 309) e a 140 seggi al Senato (rispetto a una maggioranza di 161). Con le riforme, il Dpef e una Finanziaria delicatissima da varare, in appena 59 giorni utili di lavori parlamentari, il governo sarebbe costretto al Vietnam quotidiano dei franchi tiratori.
Pur nel suo incurabile delirio di onnipotenza, anche il premier, almeno di questo, si deve essere convinto. Tenta di recuperare Follini anche a costo di sottostare a quello che gli deve apparire come un «ricatto intollerabile». Ma cerca di farlo a modo suo. Nascondendo la verità, a se stesso e al Paese. Manda Letta sul Colle, e si dichiara pronto ad andarci a sua volta, dimissionario, solo con la soluzione "chiavi in mano" della crisi. Con un Berlusconi-bis che finga di recepire le richieste programmatiche dell´Udc (le stesse scritte inutilmente un anno fa sul famoso "preambolo", che avrebbe dovuto chiudere la verifica). E che finga di esaudire la pretesa di «discontinuità» con correzioni marginali alla squadra di governo. Marco Follini non ci sta. E per ora tiene duro. Gli va dato atto, questa volta, di aver dimostrato coraggio e coerenza. Un "partitino" del 5%, per salvare almeno in apparenza la tradizione dorotea ma più nobile del cattolicesimo democratico, ha fatto saltare gli ingranaggi di quella che fu la felice "fabbrica del consenso" berlusconiana. Il coraggio e la coerenza che invece, ancora una volta, sono mancati a Gianfranco Fini. Ha le stesse perplessità di Follini sulla gestione "padronale" del Polo. Coltiva la stessa idiosincrasia politica rispetto al frontismo dittatoriale dell´asse Forza Italia-Lega. Ma di nuovo si è sfilato dalla resa dei conti. Confermando la cultura gregaria di An. Un "partitone" del 12%, immobile e imprigionato tra il suo passato (che lo risucchia nel gorgo impresentabile della destra sociale post-missina) e il suo presente (che lo costringe a un´adesione puramente utilitaristica alla "catena di comando" del premier). Una forza inutile, che risulta sdoganata per la storia (anche se con tanta, troppa fretta), ma non ancora per la politica. Una forza debole, che non riesce quasi ad esistere se non come sbiadito "correntone" del partito azzurro.
Su quali gambe potrà mai camminare allora una maggioranza del genere, quand´anche riuscisse a uscire da questa crisi? È questa la domanda vera, che oggi dovrebbe guidare le scelte del Cavaliere. Molto più che lo spirito di vendetta, sempre più dannoso per il Paese. O il falso mito dell´invincibilità, ormai offuscato da troppe cadute. Quello che è successo ieri, in fondo, era insieme inevitabile e impensabile. Inevitabile, perché il tracollo delle regionali ha solo sancito la fine conclamata di un modello politico, il berlusconismo, che in realtà era in stato comatoso già da un pezzo, e che solo l´irriducibile vocazione al combattimento del Cavaliere e l´ingestibile "vincolo di coalizione" dei suoi alleati tenevano ancora artificialmente in vita. Impensabile perché solo tre anni e mezzo fa questo stesso centrodestra, sotto le insegne trionfali dell´Imprenditore d´Italia, aveva conquistato nel Paese e in Parlamento la più ampia maggioranza della storia repubblicana, e aveva sbaragliato un centrosinistra costretto a vagare tra le macerie post-uliviste. In quel giugno del 2001, nell´opposizione lacerata da una sconfitta rovinosamente subìta e nell´altra metà dell´Italia inebriata dal "sogno azzurro" finalmente compiuto, il dibattito ruotava intorno a un unico dubbio: Berlusconi al governo durerà "solo" dieci anni, oppure andrà avanti per non meno di tre legislature?
Non è inutile ricordarlo, nel giorno in cui quella maggioranza si sfascia tra le spinte rivendicative di un´identità irrisolta e quel sogno naufraga sugli scogli di una leadership inaridita. Comunque vada a finire questa crisi, resta un dato politico, che pesa fino quasi a schiantarla sulla biografia berlusconiana: il Cavaliere ha fallito. È costretto a rinunciare alla sua grande ambizione (restare negli annali come il primo premier di un governo durato l´intera legislatura) perché ha dilapidato un patrimonio politico enorme. Ha demeritato per le ragioni esattamente opposte a quelle che Angelo Panebianco gli ha riconosciuto qualche giorno fa sul Corriere della Sera: non ha creato «una destra di governo», non ha «dato a questa destra un´ideologia spendibile contro la sinistra», non ha contrapposto «la visione dinamica e ottimista di chi scommette sul liberalismo economico, sulle virtù dell´individualismo, sulla moralità del profitto, sulla centralità, civile e non solo economica, dell´impresa e del mercato». Con lui è salita alla guida del Paese una destra avventurista e populista, totalmente diversa e "altra" rispetto a tutte le destre al governo in Europa. Con lui, attraverso il patto di ferro con il Senatur, si è affermato un ideologismo socialmente "contundente" e politicamente radicale, nel quale non si può riconoscere quell´area "di mezzo", quell´elettorato moderato senza il quale non si governa un Paese in eterna transizione come l´Italia.
Con lui è andato al potere un premier che, attraverso l´esasperazione del suo conflitto di interessi, ha fatto strame del liberalismo economico. Un premier che, attraverso la pubblicizzazione della sua vicenda giudiziaria privata, ha ridotto fin quasi ad annullarla la soglia della moralità del profitto. Un premier che, come ha ripetuto proprio ieri il leader della Confindustria, non si è mai occupato seriamente della "centralità dell´impresa" (se non della sua Mediaset) e non ha mai praticato davvero le virtù del mercato (dove sono le privatizzazioni, dove sono le liberalizzazioni e le riforme degli ordini professionali?). Inchiodato a una formula improduttiva che Luca Lanzalaco (nel suo libro appena uscito dal Mulino, "Le Politiche istituzionali") chiama "riformismo declamatorio", Berlusconi non ha saputo rispondere alla domanda di modernizzazione che arrivava proprio dai suoi elettori. Di fatto, ha tradito il "blocco sociale" che lo aveva mandato a Palazzo Chigi, come ha riconosciuto perfino Sandro Bondi, sul Riformista di ieri.
Adesso, per uscire dalla crisi, il Cavaliere potrà anche farsi tentare ancora una volta dalle soluzioni più estreme. Potrà anche ricadere nell´azzardo, in puro stile dannunziano, di cui ieri scriveva Giuliano Ferrara sul Foglio («c´è un anno di contratto ancora, e via, fino in fondo, fino al fondo»). Potrà anche rinchiudersi un´altra volta in trincea, sfidando tutto e tutti insieme alla Lega e ad An, fino alla fine della legislatura. Da solo, come ha sempre fatto, nella sua visione titanica, messianica e irrimediabilmente egotistica della politica. Ma ormai niente sarà più come prima. «Non vi libererete tanto facilmente di me...», ha tuonato ieri, all´apice della sua rabbia di monarca autocratico e spodestato. Per l´Italia è più una minaccia che una rassicurazione. La metafora è usurata, ma stavolta ci sta tutta: questo non è più Titano, è solo Titanic.
Manca il sigillo "tecnico" delle dimissioni del primo ministro. Ma dopo il ritiro della delegazione Udc dal governo, per Berlusconi è già, a tutti gli effetti, crisi politica. Il Cavaliere avrebbe un solo dovere. Recarsi dal Capo dello Stato per riferirgli l´esito negativo del vertice della Cdl, come aveva promesso di fare nell´incontro al Quirinale di tre giorni fa. Rimettere nelle mani di Ciampi il suo mandato. E poi chiedere immediatamente le elezioni anticipate. Sarebbe la soluzione più corretta e lineare sul piano istituzionale. E invece Berlusconi la rifiuta, confermando la sua natura "aliena", al sistema di regole e alla prassi costituzionale: la crisi di governo non è un suo affare personale, che può regolare nei modi e nei tempi che gli convengono di più, come se si trattasse di un consiglio di amministrazione della Fininvest.
Ma a questo punto, il voto sarebbe anche la soluzione più sensata e conveniente dal punto di vista politico. Il Cavaliere non può governare senza l´Udc. Non si può illudere nemmeno di tirare a campare con l´appoggio esterno dei centristi. Sarebbe uno stillicidio estenuante per quel che resta della Cdl, e un´agonia insopportabile per il Paese. Senza Udc e Nuovo Psi il perimetro del centrodestra si riduce a 298 seggi alla Camera (rispetto a una maggioranza di 309) e a 140 seggi al Senato (rispetto a una maggioranza di 161). Con le riforme, il Dpef e una Finanziaria delicatissima da varare, in appena 59 giorni utili di lavori parlamentari, il governo sarebbe costretto al Vietnam quotidiano dei franchi tiratori.
Pur nel suo incurabile delirio di onnipotenza, anche il premier, almeno di questo, si deve essere convinto. Tenta di recuperare Follini anche a costo di sottostare a quello che gli deve apparire come un «ricatto intollerabile». Ma cerca di farlo a modo suo. Nascondendo la verità, a se stesso e al Paese. Manda Letta sul Colle, e si dichiara pronto ad andarci a sua volta, dimissionario, solo con la soluzione "chiavi in mano" della crisi. Con un Berlusconi-bis che finga di recepire le richieste programmatiche dell´Udc (le stesse scritte inutilmente un anno fa sul famoso "preambolo", che avrebbe dovuto chiudere la verifica). E che finga di esaudire la pretesa di «discontinuità» con correzioni marginali alla squadra di governo. Marco Follini non ci sta. E per ora tiene duro. Gli va dato atto, questa volta, di aver dimostrato coraggio e coerenza. Un "partitino" del 5%, per salvare almeno in apparenza la tradizione dorotea ma più nobile del cattolicesimo democratico, ha fatto saltare gli ingranaggi di quella che fu la felice "fabbrica del consenso" berlusconiana. Il coraggio e la coerenza che invece, ancora una volta, sono mancati a Gianfranco Fini. Ha le stesse perplessità di Follini sulla gestione "padronale" del Polo. Coltiva la stessa idiosincrasia politica rispetto al frontismo dittatoriale dell´asse Forza Italia-Lega. Ma di nuovo si è sfilato dalla resa dei conti. Confermando la cultura gregaria di An. Un "partitone" del 12%, immobile e imprigionato tra il suo passato (che lo risucchia nel gorgo impresentabile della destra sociale post-missina) e il suo presente (che lo costringe a un´adesione puramente utilitaristica alla "catena di comando" del premier). Una forza inutile, che risulta sdoganata per la storia (anche se con tanta, troppa fretta), ma non ancora per la politica. Una forza debole, che non riesce quasi ad esistere se non come sbiadito "correntone" del partito azzurro.
Su quali gambe potrà mai camminare allora una maggioranza del genere, quand´anche riuscisse a uscire da questa crisi? È questa la domanda vera, che oggi dovrebbe guidare le scelte del Cavaliere. Molto più che lo spirito di vendetta, sempre più dannoso per il Paese. O il falso mito dell´invincibilità, ormai offuscato da troppe cadute. Quello che è successo ieri, in fondo, era insieme inevitabile e impensabile. Inevitabile, perché il tracollo delle regionali ha solo sancito la fine conclamata di un modello politico, il berlusconismo, che in realtà era in stato comatoso già da un pezzo, e che solo l´irriducibile vocazione al combattimento del Cavaliere e l´ingestibile "vincolo di coalizione" dei suoi alleati tenevano ancora artificialmente in vita. Impensabile perché solo tre anni e mezzo fa questo stesso centrodestra, sotto le insegne trionfali dell´Imprenditore d´Italia, aveva conquistato nel Paese e in Parlamento la più ampia maggioranza della storia repubblicana, e aveva sbaragliato un centrosinistra costretto a vagare tra le macerie post-uliviste. In quel giugno del 2001, nell´opposizione lacerata da una sconfitta rovinosamente subìta e nell´altra metà dell´Italia inebriata dal "sogno azzurro" finalmente compiuto, il dibattito ruotava intorno a un unico dubbio: Berlusconi al governo durerà "solo" dieci anni, oppure andrà avanti per non meno di tre legislature?
Non è inutile ricordarlo, nel giorno in cui quella maggioranza si sfascia tra le spinte rivendicative di un´identità irrisolta e quel sogno naufraga sugli scogli di una leadership inaridita. Comunque vada a finire questa crisi, resta un dato politico, che pesa fino quasi a schiantarla sulla biografia berlusconiana: il Cavaliere ha fallito. È costretto a rinunciare alla sua grande ambizione (restare negli annali come il primo premier di un governo durato l´intera legislatura) perché ha dilapidato un patrimonio politico enorme. Ha demeritato per le ragioni esattamente opposte a quelle che Angelo Panebianco gli ha riconosciuto qualche giorno fa sul Corriere della Sera: non ha creato «una destra di governo», non ha «dato a questa destra un´ideologia spendibile contro la sinistra», non ha contrapposto «la visione dinamica e ottimista di chi scommette sul liberalismo economico, sulle virtù dell´individualismo, sulla moralità del profitto, sulla centralità, civile e non solo economica, dell´impresa e del mercato». Con lui è salita alla guida del Paese una destra avventurista e populista, totalmente diversa e "altra" rispetto a tutte le destre al governo in Europa. Con lui, attraverso il patto di ferro con il Senatur, si è affermato un ideologismo socialmente "contundente" e politicamente radicale, nel quale non si può riconoscere quell´area "di mezzo", quell´elettorato moderato senza il quale non si governa un Paese in eterna transizione come l´Italia.
Con lui è andato al potere un premier che, attraverso l´esasperazione del suo conflitto di interessi, ha fatto strame del liberalismo economico. Un premier che, attraverso la pubblicizzazione della sua vicenda giudiziaria privata, ha ridotto fin quasi ad annullarla la soglia della moralità del profitto. Un premier che, come ha ripetuto proprio ieri il leader della Confindustria, non si è mai occupato seriamente della "centralità dell´impresa" (se non della sua Mediaset) e non ha mai praticato davvero le virtù del mercato (dove sono le privatizzazioni, dove sono le liberalizzazioni e le riforme degli ordini professionali?). Inchiodato a una formula improduttiva che Luca Lanzalaco (nel suo libro appena uscito dal Mulino, "Le Politiche istituzionali") chiama "riformismo declamatorio", Berlusconi non ha saputo rispondere alla domanda di modernizzazione che arrivava proprio dai suoi elettori. Di fatto, ha tradito il "blocco sociale" che lo aveva mandato a Palazzo Chigi, come ha riconosciuto perfino Sandro Bondi, sul Riformista di ieri.
Adesso, per uscire dalla crisi, il Cavaliere potrà anche farsi tentare ancora una volta dalle soluzioni più estreme. Potrà anche ricadere nell´azzardo, in puro stile dannunziano, di cui ieri scriveva Giuliano Ferrara sul Foglio («c´è un anno di contratto ancora, e via, fino in fondo, fino al fondo»). Potrà anche rinchiudersi un´altra volta in trincea, sfidando tutto e tutti insieme alla Lega e ad An, fino alla fine della legislatura. Da solo, come ha sempre fatto, nella sua visione titanica, messianica e irrimediabilmente egotistica della politica. Ma ormai niente sarà più come prima. «Non vi libererete tanto facilmente di me...», ha tuonato ieri, all´apice della sua rabbia di monarca autocratico e spodestato. Per l´Italia è più una minaccia che una rassicurazione. La metafora è usurata, ma stavolta ci sta tutta: questo non è più Titano, è solo Titanic.
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Reality Book, 2006
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Contemporanea Editore, 2006
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