Da Il Manifesto del 18/11/2003
Fuga da Baghdad
di Marco D'Eramo
Presi nel vortice di morti italiani e americani in Iraq, nessuno di noi ha notato che la settimana scorsa ha segnato una svolta a 180 gradi nella strategia statunitense e che la nuova parola d'ordine della Casa bianca è: «districhiamoci». In termini meno eufemistici, la nuova linea di condotta è: «squagliamocela di corsa». Certo, il presidente George W. Bush continua ad proclamare che gli Stati uniti resteranno in Iraq, mai se ne faranno cacciare, e vi costruiranno una florida e vivace democrazia. E, certo, sul terreno l'esercito americano usa armi pesanti da battaglia, aerei da combattimento F-16 e dà alle sue operazioni nomi minacciosi, dal vago sentore teutonico, come «Martello di ferro». Ma - ha notato il New York Times - queste azioni di guerra classica si rivelano inefficaci contro la guerriglia, mentre - osserva la Bbc - si rivelano costosissime in termini di consenso perché, moltiplicando le perdite «collaterali» tra i civili, nutrono l'odio della popolazione contro gli occupanti: perciò, sempre secondo il quotidiano newyorkese, queste rappresaglie sono rivolte più che altro alle proprie truppe, con l'intento di sollevarne il morale ormai sotto i tacchi.
Parole e azioni teatrali dunque. Ma le dichiarazioni di indefettibile, per quanto improvviso, attaccamento alla causa democratica irachena ricordano da vicino i proclami di eterna fedeltà dei coniugi adulteri. Infatti, il richiamo in gran carriera del governatore Paul Bremer III - dopo gli elicotteri buttati giù nella prima settimana di novembre - era già un segnale del nervosismo che si è insinuato nella Casa bianca: per volare a Washington, Bremer ha dovuto annullare un incontro con il premier polacco Leszek Miller che si trovava già a Baghdad: e la Polonia è, oltre a Italia, Spagna e Ucraina, fra i pochi che hanno offerto truppe alla coalizione angloamericana.
Mentre Bremer discuteva a Washington con il segretario di stato Colin Powell, con la consigliera per la sicurezza nazionale Condoleeza Rice, il ministro della difesa Donald Rumsfeld e il vicepresidente Dick Cheney (si noti l'assenza di Bush), è saltata in aria la caserma dei carabinieri italiani. E poi è stato abbattuto un altro elicottero Usa. Il nervosismo si è trasformato in panico: sono già 81 i militari alleati uccisi in questo mezzo mese di novembre, portando il totale dall'inizio della guerra a 496. E sono più di 9.000 i soldati Usa rimpatriati per ferite, crollo psicologico, malattie.
Da qui la fretta quasi indecorosa nell'annunciare l'esito del vertice d'urgenza, e cioè la «fine dell'occupazione americana» entro giugno prossimo e la formazione di un governo iracheno transitorio. Ma non la fine della presenza militare, ha insistito Rumsfeld, però ormai isolato nell'amministrazione (con la possibile eccezione di Cheney). Il passaggio dei poteri è stato fissato a giugno perché è l'ultima data in cui il suo annuncio può avere per Bush un effetto positivo sul voto del prossimo novembre per la Casa bianca.
Fino alla settimana scorsa, gli Stati uniti avevano sempre opposto fortissime obiezioni a chi, come i francesi, li invitata ad accelerare la restituzione del potere agli iracheni. Il Pentagono aveva sempre sostenuto che bisognava far adottare una costituzione irachena prima di indire elezioni, altrimenti il governo provvisorio non avrebbe avuto nessuna legittimità e avrebbe aggravato, invece di lenire, l'immagine degli Stati uniti come potenza occupante. All'improvviso invece, oggi quest'obiezione non ha più nessun peso. In realtà l'obiezione continua a essere sensata visto che il governo transitorio non eletto sembra destinato a finire nelle mani di un truffatore come Chalabi, cui ben si addice la definizione che Roosevelt dette del dittatore Somoza: «È sì un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana». Poco importa che un governo fantoccio presieduto da Chalabi possa innescare una cruentissima e triangolare guerra civile di tutti contro tutti, tra sunniti, curdi e sciiti. Ancor più stridente il voltafaccia sulla tesi «morale» che motivava il prolungarsi indefinito dell'occupazione americana: «Non possiamo venire qui, bombardare, distruggere, uccidere civili, portare il paese nel caos e poi andarcene». In realtà, è proprio quello che gli Usa preparano a fare.
D'altronde non è la prima volta nella storia in cui il discorso politico contraddice la politica reale di chi lo tiene. Fare la voce grossa è spesso l'unico modo per cedere sulla sostanza senza perdere la faccia. Un esempio di quest'antica tecnica di dominio lo ha fornito proprio il Pentagono con l'invasione dell'Iraq. A guerra finita, il vice di Rumsfeld, Paul Wolfowitz aveva ammesso con candore che le armi di distruzione di massa avevano costituito solo la ragione «retorica» della guerra: il suo scopo primario era invece quello di trovare un paese, altrettanto decisivo strategicamente, che ospitasse le basi militari spostate dall'Arabia saudita: e il ritiro Usa dall'Arabia saudita è iniziato a giugno. Ma, proprio come nel furore delle morti ci siamo persi il voltafaccia americano, così nel fragore della guerra non abbiamo notato che il ritiro delle basi Usa dall'Arabia saudita era la prima - e non negoziabile - rivendicazione di Al-Qaeda dopo l'attentato dell'11 settembre 2001. Attaccare l'Iraq è stato perciò - ha detto in sostanza Wolfowitz - l'unico modo per soddisfare la richiesta principale di Al Qaeda. Deve essere questo che s'intende per «guerra al terrorismo».
Parole e azioni teatrali dunque. Ma le dichiarazioni di indefettibile, per quanto improvviso, attaccamento alla causa democratica irachena ricordano da vicino i proclami di eterna fedeltà dei coniugi adulteri. Infatti, il richiamo in gran carriera del governatore Paul Bremer III - dopo gli elicotteri buttati giù nella prima settimana di novembre - era già un segnale del nervosismo che si è insinuato nella Casa bianca: per volare a Washington, Bremer ha dovuto annullare un incontro con il premier polacco Leszek Miller che si trovava già a Baghdad: e la Polonia è, oltre a Italia, Spagna e Ucraina, fra i pochi che hanno offerto truppe alla coalizione angloamericana.
Mentre Bremer discuteva a Washington con il segretario di stato Colin Powell, con la consigliera per la sicurezza nazionale Condoleeza Rice, il ministro della difesa Donald Rumsfeld e il vicepresidente Dick Cheney (si noti l'assenza di Bush), è saltata in aria la caserma dei carabinieri italiani. E poi è stato abbattuto un altro elicottero Usa. Il nervosismo si è trasformato in panico: sono già 81 i militari alleati uccisi in questo mezzo mese di novembre, portando il totale dall'inizio della guerra a 496. E sono più di 9.000 i soldati Usa rimpatriati per ferite, crollo psicologico, malattie.
Da qui la fretta quasi indecorosa nell'annunciare l'esito del vertice d'urgenza, e cioè la «fine dell'occupazione americana» entro giugno prossimo e la formazione di un governo iracheno transitorio. Ma non la fine della presenza militare, ha insistito Rumsfeld, però ormai isolato nell'amministrazione (con la possibile eccezione di Cheney). Il passaggio dei poteri è stato fissato a giugno perché è l'ultima data in cui il suo annuncio può avere per Bush un effetto positivo sul voto del prossimo novembre per la Casa bianca.
Fino alla settimana scorsa, gli Stati uniti avevano sempre opposto fortissime obiezioni a chi, come i francesi, li invitata ad accelerare la restituzione del potere agli iracheni. Il Pentagono aveva sempre sostenuto che bisognava far adottare una costituzione irachena prima di indire elezioni, altrimenti il governo provvisorio non avrebbe avuto nessuna legittimità e avrebbe aggravato, invece di lenire, l'immagine degli Stati uniti come potenza occupante. All'improvviso invece, oggi quest'obiezione non ha più nessun peso. In realtà l'obiezione continua a essere sensata visto che il governo transitorio non eletto sembra destinato a finire nelle mani di un truffatore come Chalabi, cui ben si addice la definizione che Roosevelt dette del dittatore Somoza: «È sì un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana». Poco importa che un governo fantoccio presieduto da Chalabi possa innescare una cruentissima e triangolare guerra civile di tutti contro tutti, tra sunniti, curdi e sciiti. Ancor più stridente il voltafaccia sulla tesi «morale» che motivava il prolungarsi indefinito dell'occupazione americana: «Non possiamo venire qui, bombardare, distruggere, uccidere civili, portare il paese nel caos e poi andarcene». In realtà, è proprio quello che gli Usa preparano a fare.
D'altronde non è la prima volta nella storia in cui il discorso politico contraddice la politica reale di chi lo tiene. Fare la voce grossa è spesso l'unico modo per cedere sulla sostanza senza perdere la faccia. Un esempio di quest'antica tecnica di dominio lo ha fornito proprio il Pentagono con l'invasione dell'Iraq. A guerra finita, il vice di Rumsfeld, Paul Wolfowitz aveva ammesso con candore che le armi di distruzione di massa avevano costituito solo la ragione «retorica» della guerra: il suo scopo primario era invece quello di trovare un paese, altrettanto decisivo strategicamente, che ospitasse le basi militari spostate dall'Arabia saudita: e il ritiro Usa dall'Arabia saudita è iniziato a giugno. Ma, proprio come nel furore delle morti ci siamo persi il voltafaccia americano, così nel fragore della guerra non abbiamo notato che il ritiro delle basi Usa dall'Arabia saudita era la prima - e non negoziabile - rivendicazione di Al-Qaeda dopo l'attentato dell'11 settembre 2001. Attaccare l'Iraq è stato perciò - ha detto in sostanza Wolfowitz - l'unico modo per soddisfare la richiesta principale di Al Qaeda. Deve essere questo che s'intende per «guerra al terrorismo».
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