Da La Repubblica del 31/01/2005

Supercontrollati, cauti, qualcuno perfino mascherato: così i cittadini hanno affrontato la "storica" prova

Bagdad mostra la dignità al seggio nonostante la paura

L'incubo degli attentati non ha fermato gli elettori

di Bernardo Valli

BAGDAD - QUANDO le urne erano ancora aperte, e non erano neppure stati contati tutti i morti, gli impazienti portavoce ufficiali hanno annunciato che il 72 per cento degli elettori iracheni aveva votato. Un trionfo, dunque. Un'affluenza del genere non se la sognano neppure a Washington e a Londra.

Quel quoziente, frutto della prima euforia, per il mancato, paventato disastro (e per il numero di vittime della guerriglia, almeno 36 morti e centinaia di feriti, meno grave di quel che si temeva), è stato poi definito una semplice ipotesi. E ridimensionato a un 60 per cento, ancora approssimativo, non ufficiale, un'altra ipotesi, più bassa ma comunque positiva. Perché indica che 8 milioni di iracheni (su 14,2 milioni di aventi diritto) sarebbero andati alle urne.

Se nei prossimi giorni non ci saranno ulteriori, vistose correzioni al ribasso, si tratta di una svolta nel dramma iracheno. L'assemblea costituente nata da queste elezioni avrà un'incontestabile legittimità. E altrettanto legittimo sarà il governo che, a sua volta, sarà eletto da quella assemblea.

Un governo provvisorio nell'attesa delle legislative, a Costituzione approvata, dell'anno prossimo.

Questo significa che l'Iraq non avrà più un potere esecutivo nominato di fatto dalla superpotenza occupante.

Per l'opposizione armata, per la guerriglia, è una netta sconfitta. Aveva ordinato di non avvicinarsi ai seggi elettorali, «centri di infedeltà e di apostasia», ed è stata disubbidita da una larga maggioranza di iracheni.

Non è ancora la normalità, che resta lontana, remota, poiché larga parte della comunità sunnita, per paura o rifiuto, non ha votato, e la sua astensione equivale a una amputazione. Da cui la guerriglia può trarre concreti vantaggi. Nella comunità appartata e risentita, che già l'alimenta, può trovare reclute e complici. Questo aumenta i rischi di una vera guerra civile. Ma il successo elettorale, se non proprio il trionfo, resta.

Nel corso della settimana, oltre al definitivo, meno emotivo, numero di coloro che hanno votato, il quale resta essenziale, si conosceranno i risultati.

La coalizione dei partiti religiosi sciiti avrà senz'altro un consistente numero di seggi nell'Assemblea costituente. La comunità, che dopo decenni (o addirittura secoli) di egemonia sunnita, voleva essere riconosciuta come legittima maggioranza, ha votato abbastanza compatta, anche se l'affluenza del 60 per cento fa pensare a qualche defezione. Ad essa spetteranno, in tutti i modi, i principali posti del governo.

Questo arrivo al potere degli sciiti provoca inevitabilmente un forte trauma nel mondo arabo, dominato dai sunniti. In particolare nella vicina Giordania, e soprattutto nell'Arabia Saudita, dove i rigorosi, dogmatici wahabiti, alla base della monarchia, considerano eretici gli sciiti. La prospettiva di vedere nel Golfo due grandi paesi come l'Iran e l'Iraq governati da sciiti non li lascia certamente tranquilli. Così come non rassicura in Turchia l'autonomia consacrata dal voto per i curdi (che ieri hanno votato in massa ed eletto anche una loro assemblea regionale). Istanbul, refrattaria alle rivendicazioni dei propri curdi, può temere un contagio.

Appena si muove il mosaico iracheno provoca scosse in tutto il Medio Oriente. I risultati del voto rileveranno, nei prossimi giorni, anche il peso dei partiti laici. Nei quali dovrebbero essersi riversati i voti dei (pochi) sunniti andati alle urne, senza avere un loro specifico partito, essendosi il Partito islamico ritirato dalla competizione, ubbidendo alle autorità religiose. I movimenti laici, per natura intercomunitari, contavano anche candidati sunniti, i quali, se eletti, potrebbero figurare come tali nell'assemblea costituente. Sarebbe un rattoppo intelligente. E non è escluso che proprio per questo il futuro primo ministro sia il capo di un partito laico. Ad esempio Ayad Allawi, già in carica, che presiede il Movimento di intesa nazionale. Egli ha molte probabilità di essere riconfermato.

Coraggio, paura, dignità, orrore, euforia, rifiuto. Potrei dare un altro ordine a questi atteggiamenti, vari e contrastanti, che riassumono gli stati d'animo con cui gli iracheni hanno dato o negato il loro voto, tra le minacce di morte e la morte reale. Limitandomi alle immagini raccolte di persona dovrei dare la precedenza alla dignità.

Ma la mia testimonianza diretta è incompleta. A Bagdad le automobili ieri erano proibite, eravamo tutti appiedati. E la metropoli ha un diametro di cinquanta chilometri. Una distanza (molto) al di là delle mie possibilità.

Il risveglio è avvenuto al suono delle prime esplosioni, dovute ai razzi e ai colpi di mortaio. Subito seguite da quelle dei "Leoni della brigata dei martiri", cioè dei tredici kamikaze, pure loro appiedati, ma imbottiti di tritolo, introdottisi o avvicinatisi ai seggi elettorali per massacrare gli elettori, pagando il gesto con la propria vita. Il brontolio di quei tuoni micidiali arrivava ben distinto agli orecchi degli elettori, quando ho raggiunto il quartiere di Karradah e di Battawiyeen, il vecchio ghetto da mezzo secolo senza più ebrei (che fino alla fine degli anni Quaranta erano un quarto della popolazione di Bagdad). Un quartiere adesso abitato da sciiti e da cristiani. Quindi da uomini e donne ben decisi a votare. Le code davanti ai seggi erano ordinate. Nelle espressioni e nelle dichiarazioni non c'era traccia di paura. Semmai una certa eccitazione. E anche, dignità.

Accompagnata da un indispensabile coraggio. Gli iracheni non ne sono in generale sprovvisti. Capita che lo usino male.

Per le strade, per lo meno sul mio itinerario, c'era soltanto una pattuglia americana. Ce n'erano invece molte dell'esercito iracheno. Il quale ieri ha sfoggiato i carri armati dei quali è appena stato dotato, facendoli sferragliare per le strade senza traffico, davanti agli elettori soddisfatti, o addirittura orgogliosi di non vederli sormontati da bandiere straniere. I voti, con i soldati, erano ieri iracheni. Qualche soldato di guardia ai seggi aveva il volto coperto da un passamontagna scuro.

Anche qualche elettore, nei quartieri più frequentati dai guerriglieri, era mascherato, per non subire più tardi una rappresaglia.

Tanti sono stati gli espedienti adottati per sfuggire agli attentati.

Almeno 700 seggi (su più di cinquemila), nelle città ad alto rischio, sono stati trasferiti all'ultimo minuto, di sorpresa, fuori dai centri abitati. E gli elettori vi sono stati accompagnati con autobus e camion.

Nel Triangolo sunnita, cuore della guerriglia, a Mahawil, un pullman con a bordo un gruppo di elettori, diretto verso un seggio nascosto nella campagna, è stato colpito da un proiettile. Il quale ha ucciso cinque passeggeri e ne ha feriti quattordici. Erano tutti sunniti, tra i rari incuranti degli ordini di Al Zarqawi, il capo locale di Al Qaeda, che aveva promesso di lavare le strade col sangue di chi si fosse avvicinato alle urne.

Come definire questa elezione? Drammatica? È poco. Storica? Può darsi. Democratica? Si voleva tale, e nei limiti della situazione in cui si è svolta, lo è probabilmente stata. Porterà a una democrazia? Nell'attesa si può seriamente dubitare. Con certezza si può dire che ha conosciuto episodi nobili e ignobili. E ha rivelato la straordinaria volontà di emancipazione, da parte della maggioranza degli iracheni.

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