Da Corriere della Sera del 17/11/2005
Originale su http://www.corriere.it/Primo_Piano/Editoriali/2005/11_Novembre/17/rifo...

Quindici anni sprecati?

Il paradosso della riforma federalista

di Sergio Romano

La riforma federale approvata ieri dal Parlamento potrebbe essere la più breve ed effimera della storia costituzionale italiana. È stata varata dalla maggioranza contro la volontà dell’opposizione, è malvista da un gran numero di costituzionalisti e verrà sottoposta entro sei mesi a un referendum confermativo che potrebbe demolire in un giorno ciò che il governo ha laboriosamente costruito durante una intera legislatura. Il compiacimento di Bossi, l’entusiasmo della Lega e i brindisi potrebbero occupare, negli Annali della politica italiana, lo spazio di un paragrafo. Sarebbe stato inutile, quindi, il dibattito sul federalismo e sulla riforma della Costituzione che ha dominato gli ultimi quindici anni?

Non furono questi evidentemente, fra il 1996 e il 2001, i sentimenti del centrosinistra. Nell’ultima fase del governo presieduto da Giuliano Amato, l’Ulivo ritenne che un po’ di federalismo avrebbe giovato alle sue fortune elettorali e approvò, in gran fretta, la modifica del titolo V della Costituzione. Le nuove regole, approvate poi da un referendum confermativo, sono quelle vigenti oggi e presentano almeno tre inconvenienti. In primo luogo i riformatori del centrosinistra hanno creato fra lo Stato e le Regioni una serie di competenze concorrenti che finiscono spesso di fronte alla Corte costituzionale. In secondo luogo non hanno affrontato il problema del federalismo fiscale. E in terzo luogo, infine, hanno dato maggiori poteri alla periferia, ma non hanno fatto nulla per rafforzare quelli del governo centrale. Abbiamo aggiunto alla nostra Costituzione un po’ di federalismo, ma siamo ancora, fra le maggiori democrazie europee, quella in cui il premier dispone di minori poteri.

Con la riforma del centrodestra il pendolo oscilla dall’altra parte. La riforma si chiama «devolution» perché così ha voluto Bossi per valorizzare il suo ruolo, ma si compone di due elementi. Le Regioni hanno maggiori poteri esclusivi e riducono considerevolmente le competenze dello Stato, ma il premier, d’ora in poi, assomiglierà al cancelliere tedesco e al primo ministro spagnolo più di quanto non assomigli ai presidenti del Consiglio della nostra tradizione repubblicana. Il primo elemento comporta molti rischi. L’esperienza belga degli anni Settanta e Ottanta dimostra che la trasformazione federale di uno Stato è generalmente un’operazione terribilmente costosa. Si aprono nuovi sportelli senza che i vecchi vengano chiusi. Vengono assunti nuovi burocrati senza che i vecchi vengano congedati o trasferiti. Non basta. La funzione pubblica italiana non è la migliore d’Europa, ma le amministrazioni locali sono spesso ancor meno preparate e ancor più clientelari. Più che l’«unità della Patria» (un tema spesso retorico e strumentale) dovrebbero preoccuparci in questo momento, oltre a una certa misura di solidarietà nazionale, l’unità e la coerenza degli indirizzi. Vogliamo avere tante pseudopolitiche estere e pseudopolitiche economiche quante sono le Regioni della Repubblica?

Vi sarà un referendum, come sappiamo. Ma il problema non è quello di dire sì o no alla seconda riforma federale approvata da un governo in articulo mortis . Il problema è quello di evitare che le cose buone vengano buttate via con le cose cattive e che gli italiani, voltandosi indietro, debbano giungere alla conclusione di avere perso quindici anni in chiacchiere inutili.

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