Da Lettera 22 del 14/08/2006
Originale su http://www.lettera22.it/showart.php?id=5475&rubrica=134

Viaggio intorno alla crisi libanese

La crisi libanese vista da Amman. Dove i convogli delle Nazioni Unite restano fermi a dispetto dei 'corridoi umanitari', mentre gli aiuti della penisola arabica riescono a muoversi con discrezione ed efficacia.

di Gianni Rufini

Il primo segno di guerra lo trovo al ponte di Allenby, il principale punto di transito tra Israele e la Giordania. E' chiuso, senza spiegazioni, non c'è neanche un soldato. Scendiamo in mezzo al nulla a fumarci una sigaretta. Il tassista (che parla solo russo) ripete sconsolato "Shabbat! Shabbat!", è giorno di festa. In verità comincia solo tra quattr'ore. Chiamo un amico a Tel Aviv per capirci qualcosa. "Lo shabbat non c'entra - mi conferma – hanno chiuso anche Sheik Hussein", un posto di frontiera ottanta chilometri più a nord.

Sono diretto ad Amman per fare formazione ad un gruppo di dirigenti di ONG irachene. Il giorno dopo ritento. Ci spingiamo molto a nord per una strada interna, perché il tassista (questa volta palestinese) vuole evitare assolutamente certi posti di blocco. Nell'atmosfera surreale del sabato ebraico - tutto fermo, tutto chiuso - attraversiamo i villaggi e sfioriamo i kibbutz senza vedere anima viva. Siamo ormai nel raggio dei katiuscia quando finalmente l'auto svolta verso sud, allontanandoci dalla zona calda.

Al posto di frontiera giordano , mi si avvicina un ragazzo: "Ti ho visto ieri sull'aereo dall'Italia". Lavora in un call center a Monza, ed è tornato per mettere al sicuro la famiglia che vive nei Territori Occupati. "Sono preoccupato per via della guerra, adesso li porto in Giordania da certi parenti". Ci sono molte altre famiglie stracariche di bagagli, con l'aria più dei rifugiati che dei parenti in visita.

Amman ha imparato da tempo a mantenere il sangue freddo. Non si sentono proclami in città, c'è solo una pacata dimostrazione. I capi religiosi per ora tacciono, il Primo Ministro continua a rinviare le conferenze stampa, re Abdallah ha iniziato discretamente un giro di consultazione nei paesi vicini, e la dolce regina Rania si mobilita per raccogliere fondi e aiuti.

A contrasto con la compostezza della città araba, la comunità degli espatriati (ONG, Nazioni Unite, giornalisti) è in grande agitazione: la guerra è iniziata da dieci giorni, e sono già dieci di troppo. Sembrava destinata a durare poche ore, ma sta diventando una tragedia umanitaria. Alcuni vanno in Siria per assistere i rifugiati – già centomila – che sono entrati nel paese. Andare in Libano, per ora non se ne parla: i bombardamenti continuano e le Nazioni Unite stanno inutilmente cercando di ottenere l'immunità per gli aiuti: tutti i convogli sono bloccati alla frontiera, altro che corridoi umanitari…

"La verità è che se non avessimo un paio di ragazzi del posto che lavorano lì da anni, in Libano non ci saremmo neppure simbolicamente". John Maris è il direttore dei programmi di una bella ONG californiana, diretta da un iraniano. Lavorano da anni in tutto l'Islam, con grande serietà e adesso cerca gente in Libano. Lo metto in contatto con un amico libanese che si trova per caso ad Amman.

"It will be difficult for me to be neutral…". Saman ha un passato nel Comitato Internazionale della Croce Rossa, è un umanitarista rigorosissimo, ha fatto parte delle delegazioni che investigano su Guantanamo. Adesso però si tratta del suo paese. "Sarà difficile per me essere neutrale… ma proverò".

Inanto gli aiuti dell'ONU non partono, ma qualcuno si riesce a muovere. Le mezzelune rosse di mezza penisola arabica sono sul posto e portano dentro camion, aerei, ospedali da campo. Sembra quasi che il blocco degli aiuti riguardi soltanto l'ONU e l'Occidente. Le ONG internazionali sono ferme al palo, mentre quelle islamiche sanno muoversi con discrezione ed efficacia.

Diretto a sud, attraverso la provincia di Ma'an, centro del fondamentalismo giordano. Mi attendo qualche ora difficile, un senso di ostilità, e invece vengo piacevolmente sorpreso da questa gente sobria e serena. Una comunità profondamente religiosa e conservatrice ma con tutto il senso della dignità e dell'ospitalità del buon musulmano. Con i pochi che parlano inglese, commentiamo le immagini di Qana che scorrono sul televisore, il groppo alla gola. Non c'è simpatia per Hizbollah: "Dovrebbero mandarli tutti in Iran!" ma c'è sconcerto, commozione per quello che vediamo. Nei loro sguardi vedo più dolore che rabbia. Tutte le loro donne sono velate, ma sono brava gente.

Aqaba. Nonostante sia diventata grande, moderna e cosmopolita, meta di turisti da tutto il mondo attratti dai fondali corallini del Mar Rosso, la città conserva ancora gran parte del fascino dei tempi di Lawrence d'Arabia. In questa stagione in cui gli occidentali non si vedono, fa un caldo asfissiante giorno e notte, e il vento che soffia dal deserto saudita e' rovente, Aqaba torna ad essere un porto arabo. Gli unici visitatori sono marinai e uomini d'affari della penisola arabica. Le turiste bionde lasciano il posto a donne totalmente coperte da un velo nero, che si bagnano vestite così, sotto un sole implacabile.

E' con la guerra in Iraq che il porto giordano ha sviluppato una nuova vocazione di hub logistico umanitario. Arrivano qui molti degli aiuti dei paesi arabi, che da soli hanno raccolto per questa crisi più fondi delle Nazioni Unite. Il nuovo protagonismo umanitario delle ONG islamiche mi viene confermato da Tareq, giordano-britannico, come dalla pachistana Zaveen e da operatori marocchini, kuwaitiani ed egiziani. Gente bravissima, che lavora bene e si muove con abilità nel mondo musulmano. Il futuro dell'aiuto umanitario è forse qui, più che a Ginevra.

Ci sono decine di organizzazioni islamiche, ma anche alcuni europei. Incontro una ONG tedesca, specializzata in interventi sanitari. "Abbiamo dei partner arabi, e contiamo di entrare in Libano con il loro aiuto. Loro hanno dei contatti, conoscono delle strade alternative, vengono aiutati dai beduini". Il convoglio parte. Lo spirito di Lawrence aleggia ancora: immagino i camion nel deserto, di notte, a luci spente.

Al ventesimo giorno di guerra si parla ancora di corridoi e di tregue, ma intanto gli aiuti sono sempre fermi. Decido di tornare a Gerusalemme e trovo Allenby di nuovo chiuso. In città sono arrivati centinaia di sfollati israeliani dal nord, e diversi hotel sono stati requisiti. A Tel Aviv, raccolgo lo sconforto di alcuni ambienti israeliani. "Stiamo seguendo la logica neo-con di chiamare tutti terroristi. Non parliamo più con nessuno". "Per di più, ora il nostro esercito non fa più paura a nessuno". Un ex-generale commenta: "Non avrei mai immaginato che saremmo finiti a fare la Legione straniera degli americani".

Nel frattempo a Gaza, al termine di tre settimane di combattimenti i morti sono 120, per metà bambini. Tento inutilmente di entrare, ma riesco a comunicare per telefono. Ci sono combattimenti continui, decine di case sono state rase al suolo dai bombardamenti, non ci sono più acqua corrente e luce elettrica in gran parte della striscia, la spazzatura si accumula sotto il sole, gli spostamenti sono impossibili. Ma intanto, la guerra in Libano ha oscurato la tragedia palestinese, che pure si consuma inesorabile. Ed è la madre di tutte le crisi.

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