Da Corriere della Sera del 21/07/2003

Karzai e l'assedio dei signori della guerra

di Sergio Romano

Un anno fa l’Afghanistan sembrava avviarsi verso la normalità. Il regime talebano era stato sconfitto. Osama bin Laden e il mullah Omar erano sfuggiti agli americani, ma avevano perduto gran parte delle loro truppe. Nel corso di una riunione, nei pressi di Bonn, i rappresentanti dei maggiori gruppi politici si erano accordati sul modo in cui affrontare la transizione verso la democrazia. Il vecchio re era tornato in patria. Un’assemblea tribale, la Loya Jirga, aveva riunito a Kabul tutti i rappresentanti delle tribù afghane. Un uomo intelligente aveva assunto i poteri presidenziali e si preparava ad affrontare la ricostruzione politica ed economica del Paese. Truppe europee lo aiutavano a garantire la sicurezza della capitale. Quali sono oggi, a un anno di distanza, le condizioni del Paese?
Qualche settimana fa l’ Economist ha pubblicato una corrispondenza dalla provincia di Bamyan (quella in cui i talebani distrussero due giganteschi Buddha scolpiti nella roccia di una montagna) e la intitolò, con sconsolata rassegnazione: It is not awful everywhere , la situazione non è terribile ovunque. Qui i villaggi in cui si coltiva l’oppio sono pochi. Le relazioni tra i tagichi e gli azeri sono relativamente tranquille. La presenza di un distaccamento militare afghano garantisce una certa sicurezza. Un gruppo di genieri americani sovrintende alla ricostruzione delle case distrutte dalla guerra e permette agli uomini di portare in famiglia un modesto salario. Ma nei villaggi meridionali della provincia la gente sopravvive mangiando erba e la mortalità delle madri, al momento del parto, è di cinque volte superiore a quella delle regioni africane a sud del Sahara. Occorrono aiuti alimentari, ma le strade mancano o sono difficilmente percorribili. Occorrono investimenti e crediti, ma l’assistenza non basta a mettere in moto la macchina dello sviluppo. Quanto tempo passerà prima che tutti i contadini del Bamyan ritornino alla cultura dell’oppio? Quanto ancora prima che i narcotrafficanti riappaiano nella zona e ne divengano, a tutti gli effetti, i padroni?
In altre parti dell’Afghanistan i papaveri fioriscono indisturbati. Vi è, a questo proposito, un singolare paradosso, che vale la pena di raccontare. Per qualche anno, dopo l’occupazione di Kabul nel 1996, i Talebani si finanziarono con la coltivazione dell’oppio e il commercio della droga. L’Afghanistan fu in quegli anni il principale fornitore mondiale di eroina e il centro di una criminalità che contaminava tutti i Paesi della regione. Ma nell’ultima fase del regime il governo di Kabul si piegò alle pressanti richieste dei suoi vicini (fra cui in particolare il Pakistan) e impose l’interruzione delle coltivazioni. E’ accaduto così che per un intero anno dopo la vittoria americana in Afghanistan il mondo traesse qualche beneficio dall’unica cosa buona che i talebani avevano fatto negli anni del loro potere. Oggi il Paese sta rapidamente tornando alle sue vecchie abitudini e le polizie di tutto il mondo si preparano a sostenere l’onda d’urto di un intero raccolto, nuovamente scaricato sui mercati internazionali. Nel suo palazzo di Kabul il presidente Hamid Karzai ne è perfettamente consapevole. Ma controlla la capitale e, malamente, qualche zona del Paese.
A un anno e mezzo dalla fine della guerra americana l’Afghanistan è un mosaico di feudalità governate da signori della guerra e baroni tribali. A Herat, nel nord-ovest, Ismail Khan ha instaurato un regime fondamentalista di obbedienza iraniana e incassa per sé i diritti di dogana che dovrebbero alimentare le modeste risorse finanziarie del governo centrale. Dall’altra parte del Paese, sulla frontiera con il Pakistan, le scarse truppe del presidente Karzai debbono far fronte ai continui sconfinamenti dell’esercito del generale Musharraf. Il Pakistan rivendica la linea Durrand, tracciata sul terreno dagli inglesi nel 1893. L’Afghanistan vuole esercitare la sua sovranità su un territorio che si estende per 40 km al di là della linea. Spetterebbe all’America intervenire fra i suoi due alleati-satelliti per costringerli a mettersi d’accordo. E spetterebbe all’America aiutare Karzai a prevalere sui baroni che controllano le province e rendono impossibile un piano di ricostruzione nazionale. Ma la situazione afghana è per molti aspetti il risultato della strategia con cui la presidenza Bush ha fatto la guerra e affrontato il dopoguerra. Quando decisero di attaccare, gli americani avevano soltanto obiettivi di corto respiro: liquidare il regime talebano, distruggere le basi di Al Qaeda, impedire a Osama bin Laden di utilizzare l’Afghanistan come quartier generale delle sue operazioni terroristiche. Il nation building , vale a dire l’assistenza alla costruzione di uno Stato stabile e democratico, non appartiene alla filosofia politica dei neoconservatori che hanno maggiormente influito sulla strategia afghana del presidente. Oggi ancora, nonostante la guerra sia finita da più di diciotto mesi, le truppe americane sono in Afghanistan principalmente per combattere i nuclei talebani e impedire ad Al Qaeda di riorganizzarsi. Sulla prospettiva di un impegno maggiore incombe, come una enorme nuvola nera, il ricordo della tragica esperienza sovietica durante gli anni Ottanta. Esistono, beninteso, le forze prevalentemente europee dell’Isaf (International Security Assistance Force) che passerà l’11 agosto sotto il controllo della Nato. Ma i tedeschi, che ne hanno assicurato il comando e stanno per passarlo ai canadesi, ritireranno in settembre 800 uomini. Ne rimarranno sul terreno, complessivamente, 4500, a cui verrà affidata la sicurezza di 649.969 km quadrati. Dovranno concentrare la loro attenzione su Kabul e passare buona parte del loro tempo a guardarsi le spalle. Non basta. Finché i riflettori dell’opinione pubblica internazionale illumineranno l’Iraq, le luci a Kabul rimarranno spente.

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