Da Famiglia cristiana del 20/07/2003
Parla il generale Battisti, a capo della "Taurinense"
Primavera a Kabul
E l'unico militare ad avere svolto funzioni di coniando nelle due spedizioni, Isaf ed Enduring Freedom: «Il paese sta uscendo dall'era dei talebani. anche grazie a noi».
di Fulvio Scaglione

«La prima cosa da sottolineare», dice il generale Battisti, «è come è cambiato l'Afghanistan. Quando arrivai a Kabul, a fine dicembre 2001, vidi un Paese che stentava a uscire dall'oscurantismo talebano e un popolo che soffriva e faticava a liberarsi dalla paura e dall'inerzia. A distanza di solo un anno, negli stessi luoghi, le cose erano già molto diverse. Si nota ovunque un desiderio quasi frenetico di ripartire. La piana che collega Kabul a Bagram l'anno scorso era deserta, quest'anno c'erano i contadini che lavoravano la terra con i trattori, i pastori con le greggi, persino i pastori nomadi kuci che hanno ripreso le migrazioni. E, soprattutto, non c'è più nessuno che soffre la fame. Il che, onestamente, ci rende anche un po' orgogliosi del lavoro fatto».
E per Isaf ed Enduring Freedom?
«I compiti erano e sono diversi. La missione Isaf deve fornire, attraverso la presenza delle truppe della coalizione, un supplemento di sicurezza e fiducia al consolidamente delle nuove istituzioni afghane. Processo che parte da Kabul e si diffonde, pur con difficoltà, in tutto il Paese...».
Scusi, generale, la interrompo subito: funzionano, queste nuove istituzioni del Governo di Ahmid Karzaj?
«Per giudicare bisogna tener conto del fatto che l'Afghanistan, oltre a essere un Paese appena uscito da oltre vent'anni di guerra e ancora impegnato a regolare divisioni etniche che in passato sono state assai sanguinose, è un Paese all'80 per cento montagnoso, in cui le distanze si misurano in giorni e non in chilometri. Pensi solo alla difficoltà nelle comunicazioni. Detto questo, si nota che quel processo avanza. Sta crescendo, tra l'altro, il peso della nuova polizia e soprattutto del nuovo esercito. Il primo battaglione divenne operativo a Kabul nel maggio scorso, ora siamo già a diversi battaglioni, tutti assai motivati e costituiti su base multietnica. Hanno partecipato a operazioni di controllo del territorio con noi e con le altre forze della coalizione e si sono ben comportati».
La missione Isaf, dunque, raggiunge i suoi scopi. É lo stesso per la parte italiana di Enduring Freedom?
«Anche in questo caso il bilancio è positivo. Dal punto di vista tecnico, abbiamo schierato il contingente di mille uomini nei tempi previsti, trasferendo uomini e mezzi dall'Italia a quasi 6.000 chilometri, nonostante le difficili condizioni ambientali: febbraio e marzo, infatti, sono i mesi più piovosi e nevosi in Afghanistan. Dal punto di vista professionale, abbiamo collaborato con i soldati americani su un piano di assoluta parità, e abbiamo tenuto la provincia di Qost per tre mesi senza grossi problemi, controllando il territorio e impedendo l'infiltrazione di elementi terroristici dal confine pachistano. Ottimi pure i risultati con la popolazione. Che all'inizio era diffidente, vedendo arrivare sul suo territorio un altro esercito straniero, ma poi ha sviluppato con noi rapporti di collaborazione davvero notevoli».
In questo genere di missioni i soldati italiani si fanno sempre apprezzare; quelli Usa, vedi Irak, hanno molti più problemi. Che cosa ne pensa?
«Ognuno di noi, coree Paese e come Forze armate, ha caratteristiche precise. Ognuno riesce meglio in certe cose piuttosto che in altre. Posso parlare solo per l'Afghanistan, e li ho visto gli americani portare molto aiuto alla popolazione, che li ricambia tenendo con loro rapporti corretti. L'ospedale militare da campo Usa di Bagram cura in prevalenza civili afghani. E ho visto fare ai miei colleghi Usa evacuazioni in elicottero di afghani feriti dalle mine o in gravi incidenti sul lavoro, persino da Kandahar a Bagram, che forse altri eserciti non sarebbero stati disposti a fare».
I suoi soldati, comunque, hanno avuto qualche momento rischioso...
«Hanno saggiato la nostra reazione tre giorni dopo che avevamo assunto la responsabilità di Qost: qualche razzo e poi un attacco di alcuni elementi a terra, di notte. Ma la nostra reazione è stata assai pronta e decisa, tanto che per tre mesi non hanno fatto più nulla. E poi hanno sparato altri razzi pochi giorni prima che partissimo, quasi per salutarci... Episodi sporadici, comunque. Il caos non torna in Afghanistan».
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