Da Corriere della Sera del 24/10/2003
In Bosnia e in Kosovo erano impiegati in «operazioni speciali». Ora andranno in missione di pace, a fianco degli Usa
E la Serbia manda i «berretti rossi» a Kabul
Così Washington, dopo polacchi, bulgari e cechi, inserisce anche Belgrado nella «giovane Europa»
di Massimo Nava
BELGRADO - Il ministro dell’Interno, Dusan Mihajlovic, ex alleato di Milosevic, conferma: le forze speciali della polizia serba si stanno addestrando per una missione in Afghanistan. Avranno il compito di prevenire infiltrazione di mujaheddin dal Pakistan. Partenza prevista per il mese di marzo, secondo accordi fra Washington e Belgrado.
Del contingente serbo, potrebbero far parte gli uomini del disciolto reparto dei «berretti rossi», quelli che in Bosnia fiancheggiarono operazioni segrete di Belgrado, che hanno «fatto esperienza» contro la guerriglia albanese, e che appoggiarono il leader dell’opposizione Zoran Djindjic per abbattere il regime di Slobo; quelli che hanno ispirato l'omicidio dello stesso Djindjic, eliminato per aver immaginato di spedire qualche «berretto» al Tribunale internazionale per i crimini della ex Jugoslavia. E partiranno per Kabul anche molti poliziotti che annunciano cortei di protesta nelle strade di Belgrado contro le ultime estradizioni richieste dai giudici dell'Aja.
La notizia della missione afghana, che può stupire chi non è abituato all'immenso traffico di cinismo e dolore prodotto dalla storia balcanica, giunge come un epitaffio sulla bara di Alja Izetbegovic, il padre della Bosnia scomparso nei giorni scorsi. E’ la fine di un ciclo, o meglio l'inizio di uno nuovo, nel rispetto dell'unica regola condivisa da queste parti, la ripetitiva confusione di vittime e carnefici.
Dunque, a fianco dei marines americani, ci saranno soldati che la storia scritta in Occidente considera simboli del genocidio in Bosnia e della pulizia etnica in Kosovo e che la storia serba - almeno fino alle revisioni dell'ultima ora - ritiene invece i difensori di una causa nazionale: dalla islamizzazione bosniaca teorizzata da uomini come Izetbegovic e dal separatismo albanese incoraggiato da Washington e dalle capitali europee. Minacce autentiche, o percepite come tali, che produssero gli orrori di Srebrenica e Sarajevo e mostri come Karadzic e Mladic. Minacce ingigantite dalla presenza di migliaia di volontari inviati negli anni Novanta da quasi tutti i Paesi islamici. Il solo Saddam stava dalla parte di Milosevic nella presunzione di formare un patetico fronte antiamericano. Bin Laden invece cominciava ad infiltrare la sua rete: secondo un servizio segreto avrebbe posseduto un passaporto bosniaco fin dal 1993.
La storia di ieri viene amnistiata da una strana sintonia delle attuali emergenze internazionali con il nuovo corso politico nei Balcani. Iraq e Afghanistan fanno trascurare le ferite rimaste aperte in Bosnia e Kosovo. L'impossibile stabilità nonostante migliaia di peacekeepers, il trionfo dei partiti nazionalisti, l'imperio delle mafie, la pulizia etnica rovesciata contro i serbi in Kosovo (1026 serbi uccisi dalla fine delle ostilità) dovrebbero far riflettere anche sulle prospettive di pace dalle parti di Kabul e Bagdad. Per imprese del genere vanno dunque bene anche i poliziotti serbi, i discendenti della carne da cannone al servizio degli imperi del passato.
Belgrado li ha offerti, in cambio della benevolenza dell'impero di oggi. E Washington, dopo polacchi, bulgari, ungheresi e cechi, li ha accolti, inserendo anche la Serbia nello scenario della «giovane Europa» post comunista, alleata più docile del «vecchio» asse Parigi-Berlino.
Le intese militari di Belgrado sono il corollario di quanto si va profilando in Serbia a tre anni esatti dalla caduta di Milosevic. La disoccupazione è al 40 per cento, con punte del 50 fra giovani laureati e diplomati, il cui sogno è un visto per l'Europa. Alla rassegnazione si sovrappongono rancori e nostalgie, perché con la democrazia sono arrivate le leggi del mercato, bollette della luce, salute a pagamento, licenziamenti, chiusura di aziende decotte. Pezzi d'apparato e frammenti litigiosi della nuova classe dirigente si scambiamo feroci accuse di corruzione e mafiosità, mentre uomini d'affari europei e americani s'insinuano nel grande businness delle privatizzazioni.
Per ora, la gara è vinta dagli americani che si sono presi i pezzi più interessanti della collezione: le acciaierie comprate dalla US Steel e la manifattura tabacchi finita alla Philips Morris. La Boeing lavora a un progetto produttivo in Serbia. Rappresentanti delle industrie militari serbe discutono al Pentagono le possibilità di collaborazione con i più importanti gruppi americani. In questo quadro idilliaco, è arrivata l'offerta del governo serbo per l'invio di truppe in Afghanistan. Prossima tappa, la «partnership per la pace» in ambito Nato, come ha promesso Lord Robertson, se i serbi saranno così buoni da consegnare il generale Mladic al Tribunale dell'Aja. Nei giorni scorsi si è assistito all'ennesima messa in scena di caccia all'uomo.
Dopo il socialismo di Tito e l'era Milosevic, Belgrado esprime adesso un precario e intrigante kitsch balcanico, post bellico e neo coloniale. Ipermercati di moda italiana, Mc Donald's, autosaloni tedeschi, filiali slovene si moltiplicano fra palazzoni slabbrati e vecchie botteghe dai colori improbabili. Luci e miserie accomunate da annunci di saldi e vendite rateali.
«Abbiamo combattuto per la democrazia, per la legalità e per il lavoro, per oneste privatizzazioni. Niente di tutto questo è stato realizzato», ha detto Velimir Ilic, il sindaco di Cacak che fu tra i capipopolo della rivolta contro il regime. «Non siamo nemmeno riusciti a costruire un nuovo quadro di regole istituzionali», è il chiodo fisso di Kostunica, stritolato dalla lotta fra le fazioni. «Ogni Paese ha una mafia, qui la mafia possiede un Paese», è la battuta che circola a Belgrado. Il sarcasmo sulla propria condizione di terra di mezzo è spesso l'arma che i serbi usano per sopravvivere: «A quattro anni dal bombardamento umanitario diventiamo peacekeepers: visto? Il serbo cattivo non esiste più».
Del contingente serbo, potrebbero far parte gli uomini del disciolto reparto dei «berretti rossi», quelli che in Bosnia fiancheggiarono operazioni segrete di Belgrado, che hanno «fatto esperienza» contro la guerriglia albanese, e che appoggiarono il leader dell’opposizione Zoran Djindjic per abbattere il regime di Slobo; quelli che hanno ispirato l'omicidio dello stesso Djindjic, eliminato per aver immaginato di spedire qualche «berretto» al Tribunale internazionale per i crimini della ex Jugoslavia. E partiranno per Kabul anche molti poliziotti che annunciano cortei di protesta nelle strade di Belgrado contro le ultime estradizioni richieste dai giudici dell'Aja.
La notizia della missione afghana, che può stupire chi non è abituato all'immenso traffico di cinismo e dolore prodotto dalla storia balcanica, giunge come un epitaffio sulla bara di Alja Izetbegovic, il padre della Bosnia scomparso nei giorni scorsi. E’ la fine di un ciclo, o meglio l'inizio di uno nuovo, nel rispetto dell'unica regola condivisa da queste parti, la ripetitiva confusione di vittime e carnefici.
Dunque, a fianco dei marines americani, ci saranno soldati che la storia scritta in Occidente considera simboli del genocidio in Bosnia e della pulizia etnica in Kosovo e che la storia serba - almeno fino alle revisioni dell'ultima ora - ritiene invece i difensori di una causa nazionale: dalla islamizzazione bosniaca teorizzata da uomini come Izetbegovic e dal separatismo albanese incoraggiato da Washington e dalle capitali europee. Minacce autentiche, o percepite come tali, che produssero gli orrori di Srebrenica e Sarajevo e mostri come Karadzic e Mladic. Minacce ingigantite dalla presenza di migliaia di volontari inviati negli anni Novanta da quasi tutti i Paesi islamici. Il solo Saddam stava dalla parte di Milosevic nella presunzione di formare un patetico fronte antiamericano. Bin Laden invece cominciava ad infiltrare la sua rete: secondo un servizio segreto avrebbe posseduto un passaporto bosniaco fin dal 1993.
La storia di ieri viene amnistiata da una strana sintonia delle attuali emergenze internazionali con il nuovo corso politico nei Balcani. Iraq e Afghanistan fanno trascurare le ferite rimaste aperte in Bosnia e Kosovo. L'impossibile stabilità nonostante migliaia di peacekeepers, il trionfo dei partiti nazionalisti, l'imperio delle mafie, la pulizia etnica rovesciata contro i serbi in Kosovo (1026 serbi uccisi dalla fine delle ostilità) dovrebbero far riflettere anche sulle prospettive di pace dalle parti di Kabul e Bagdad. Per imprese del genere vanno dunque bene anche i poliziotti serbi, i discendenti della carne da cannone al servizio degli imperi del passato.
Belgrado li ha offerti, in cambio della benevolenza dell'impero di oggi. E Washington, dopo polacchi, bulgari, ungheresi e cechi, li ha accolti, inserendo anche la Serbia nello scenario della «giovane Europa» post comunista, alleata più docile del «vecchio» asse Parigi-Berlino.
Le intese militari di Belgrado sono il corollario di quanto si va profilando in Serbia a tre anni esatti dalla caduta di Milosevic. La disoccupazione è al 40 per cento, con punte del 50 fra giovani laureati e diplomati, il cui sogno è un visto per l'Europa. Alla rassegnazione si sovrappongono rancori e nostalgie, perché con la democrazia sono arrivate le leggi del mercato, bollette della luce, salute a pagamento, licenziamenti, chiusura di aziende decotte. Pezzi d'apparato e frammenti litigiosi della nuova classe dirigente si scambiamo feroci accuse di corruzione e mafiosità, mentre uomini d'affari europei e americani s'insinuano nel grande businness delle privatizzazioni.
Per ora, la gara è vinta dagli americani che si sono presi i pezzi più interessanti della collezione: le acciaierie comprate dalla US Steel e la manifattura tabacchi finita alla Philips Morris. La Boeing lavora a un progetto produttivo in Serbia. Rappresentanti delle industrie militari serbe discutono al Pentagono le possibilità di collaborazione con i più importanti gruppi americani. In questo quadro idilliaco, è arrivata l'offerta del governo serbo per l'invio di truppe in Afghanistan. Prossima tappa, la «partnership per la pace» in ambito Nato, come ha promesso Lord Robertson, se i serbi saranno così buoni da consegnare il generale Mladic al Tribunale dell'Aja. Nei giorni scorsi si è assistito all'ennesima messa in scena di caccia all'uomo.
Dopo il socialismo di Tito e l'era Milosevic, Belgrado esprime adesso un precario e intrigante kitsch balcanico, post bellico e neo coloniale. Ipermercati di moda italiana, Mc Donald's, autosaloni tedeschi, filiali slovene si moltiplicano fra palazzoni slabbrati e vecchie botteghe dai colori improbabili. Luci e miserie accomunate da annunci di saldi e vendite rateali.
«Abbiamo combattuto per la democrazia, per la legalità e per il lavoro, per oneste privatizzazioni. Niente di tutto questo è stato realizzato», ha detto Velimir Ilic, il sindaco di Cacak che fu tra i capipopolo della rivolta contro il regime. «Non siamo nemmeno riusciti a costruire un nuovo quadro di regole istituzionali», è il chiodo fisso di Kostunica, stritolato dalla lotta fra le fazioni. «Ogni Paese ha una mafia, qui la mafia possiede un Paese», è la battuta che circola a Belgrado. Il sarcasmo sulla propria condizione di terra di mezzo è spesso l'arma che i serbi usano per sopravvivere: «A quattro anni dal bombardamento umanitario diventiamo peacekeepers: visto? Il serbo cattivo non esiste più».
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