Da Il Manifesto del 25/11/2003

Politica o quasi

In quanti modi si può dire terrorista

di Ida Dominijanni

«Giugno 1914: a Sarajevo un ragazzo salta su una vettura e comincia a sparare. L'arciduca Ferdinando muore. Dopo alcune settimane comincia la prima guerra mondiale. Anni quaranta: la resistenza francese uccide i soldati delle truppe di occupazione dove e appena può. Giugno 1944: a Oradur-sur-Glane, nel centro della Francia, le SS si vendicano massacrando 642 abitanti. Agosto 1945: l'aereonautica degli Stati uniti lancia le prime bombe atomiche. Muoiono 190.000 giapponesi, quasi tutti civili. Dopo pochi giorni finisce la seconda guerra mondiale. Quale di questi quattro avvenimenti è stato un atto terroristico? Quale ha ottenuto un risultato? Quale, se ce n'è uno, potrebbe essere giustificato dalla storia? E dalla storia di chi? Il terrorismo non è quel fenomeno da teppistelli, chiaro, definito, e che ci piace tanto condannare. Non esiste infatti una linea precisa che distingue la politica dalla minaccia, la minaccia dall'uso della forza, l'uso della forza dalla guerra, nascosta o palese che sia. Chi è terrorista? E chi non lo è? L'attentatore suicida, la guerriglia ribelle, il fronte di liberazione, le forze armate governative?». Questa lunga citazione mirante, come si dice, a decostruire la parola «terrorista» non è tratta da un foglio estremista di oggi, ma da un articolo non firmato dell'Economist del 2 marzo 1996, che compare in una antologia di testi sul terrorismo curata da Marco Fossati (Terrorismo e terroristi, Bruno Mondadori). Volumetto composto a uso dell'insegnamento della storia nella scuola, ma utilissimo per intercettare con qualche grano di saggezza il dibattito che imperversa sui giornali dopo gli ultimi atroci attentati in Iraq e in Turchia. Andando in cerca di una definizione certa del termine, Fossati si imbatte nella storia incerta di «un fenomeno antico e complesso che viene spesso interpretato con categorie solo emotive o ideologiche». Giacché se la parola compare nel linguaggio politico per la prima volta durante la rivoluzione francese, e se la pratica terrorista attecchisce nei gruppi rivoluzionari minoritari nella Russia di fine 800, per rintracciarne gli antecenti si può invece risalire ai Sicari raccontati da Giuseppe Flavio, o al martirio degli Ismaeliti. E venendo a tempi più vicini bisogna attraversare passaggi stretti e scomodi, come il rapporto fra terrorismo e guerra partigiana, o la «sinistra tradizione mediorientale», come la chiama Ben Morris, in cui dagli anni trenta in poi si confrontano il terrorismo degli arabi e quello dei sionisti. E poi, ancora, il terrorismo rosso degli anni settanta in Italia e in Germania, e il suo impatto sulle sinistre europee. Solo in fondo a questa maratona si arriva alla svolta che l'11 settembre ha imposto nella percezione occidentale del fenomeno e nella sua, tuttora incerta e controversa, configurazione e definizione.

La maratona non serve, sia chiaro, a diluire nell'indistinto i caratteri del terrorismo suicida e islamico-fondamentalista con cui abbiamo a che fare oggi. Ma, si chiede Fossati, «bisognerà allora considerare il terrorismo come un problema che riguarda le società islamiche di oggi e i loro rapporti con il resto del mondo? O non piuttosto come un fenomeno antico, che ha trovato nella modernità forme di manifestazione e vie di diffusione particolarmente favorevoli, e nel quale si esprime oggi una frangia del radicalismo religioso islamico così come altre volte vi si è espresso il radicalismo politico laico?». Insomma, non siamo nel mezzo di uno scontro di civiltà, ma di un sanguinoso conflitto politico.Nel quale, continua Fossati, non serve condurre una guerra di religione, ma una lotta in difesa del diritto. Due anni dopo l'11 settembre il punto resta infatti sempre lo stesso: se quell'atto, e la successiva catena di stragi suicide da esso innescati, siano definibili come atti di guerra da combattere con la guerra (preventiva), o come atti criminali da contrastare con il diritto penale e internazionale. L'unica risposta dotata di senno è la seconda, come i fatti si stanno incaricando di dimostrare. Con un'aggiunta però, che ci sono ragioni che la ragion giuridica non conosce, e di fronte alle quali disarma. Basta leggere il testo dello psicologo S. Atran su «Come nasce un kamikaze» - reclutamento, sentimenti, incentivi, addestramento - per realizzare che sul terrorismo suicida la razionalità politica e giuridica occidentale ha ancora molto da interrogarsi e da capire.

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