Da Famiglia cristiana del 18/01/2004
Originale su http://www.sanpaolo.org/fc/0403fc/0403fc54.htm
Ruanda. Due italiani nel Tribunale internazionale di Arusha
Norimberga africana
Il giudice Flavia Lattanzi e l’avvocato Caldarera alla Corte dell’Onu, che giudica gli imputati del genocidio del 1994.
di Joshua Massarenti, Luciano Scalettari
Un giudice e un avvocato: ci sono due italiani che operano nel Tribunale penale internazionale per il Ruanda (Tpir), istituito dall’Onu ad Arusha (Tanzania) nel 1994 per giudicare i principali responsabili del genocidio che tra l’aprile e il giugno di quell’anno causò nel Paese africano fra 800.000 e un milione di vittime.
Il giudice, la professoressa Flavia Lattanzi, fa parte della terna che dovrà emettere la sentenza nel processo Government 1, che riguarda ministri, politici e alti funzionari del Governo in carica durante la guerra civile e la caccia all’uomo dei tutsi e degli hutu moderati.
L’avvocato è Giacomo Barletta Caldarera, del foro di Catania. Nei mesi scorsi ha difeso Jean-Bosco Barayagwiza in un procedimento senza precedenti. La sentenza, emessa il 3 dicembre scorso, farà discutere: si tratta della prima condanna per genocidio comminata a responsabili di mezzi d’informazione per aver incitato la popolazione ai massacri.
Il verdetto riguarda tre ex responsabili di media estremisti ruandesi: Ferdinand Nahimana e Barayagwiza, fondatori della Radio Télévision des Milles Collines (Rtlm); e Hassan Ngeze, ex caporedattore della rivista Kangura. A nessuno di loro è stato contestato l’omicidio, ma per i messaggi di odio razziale propagandati attraverso i media, il giudice sudafricano Navethem Pillay li ha ritenuti colpevoli «di genocidio, incitamento pubblico e diretto a commettere il genocidio e crimini contro l’umanità». Ergastolo per Nahimana e Ngeze, 35 anni di carcere per Barayagwiza. Secondo il nuovo procuratore generale del Tpir, il gambiano Bubacar Jallow, d’ora in poi «chi utilizza i media per identificare un gruppo etnico in vista di distruggerlo dovrà fare i conti con la giustizia».
«Oltre che sbagliato, temo che questo verdetto avrà conseguenze pesanti sulle libertà di stampa e di espressione», dice Caldarera, che ha concentrato gran parte della sua attività all’estero, in materia di Diritto penale internazionale, Criminologia e Diritto penitenziario. È stato, tra l’altro, segretario generale dell’Associazione internazionale di diritto penale a Parigi, da 12 anni è visiting professor alla Public security di Pechino e consulente dell’Unione europea. Dal 1998 si è iscritto all’albo speciale degli avvocati dei tribunali Onu. Così, l’anno seguente, si è trovato a difendere prima Jean-Paul Akayezu (un sindaco condannato all’ergastolo), e poi Barayagwiza.
Quest’ultimo, tuttavia, non ha riconosciuto la legittimità del Tribunale, e quindi non ha nemmeno accettato Caldarera come avvocato d’ufficio. «Non si è mai presentato davanti ai giudici», dice. «L’ho incontrato una sola volta. I limiti difensivi sono stati enormi. Non ho potuto contare su alcun testimone».
La linea di difesa Caldarera l’ha costruita sugli scritti del suo cliente e su documentazione ricavata dall’archivio del Tpir e da altri processi. Ne aveva chiesto l’assoluzione e ha presentato appello. La sentenza considera Barayagwiza e il collega responsabili, in quanto membri del consiglio di amministrazione della radio, «di non aver fatto nulla per impedire la diffusione di messaggi che incitavano ai massacri».
«In Ruanda non vi fu un genocidio», sostiene Caldarera, «bensì un Governo che si è legittimamente difeso contro un aggressore esterno, cioè il gruppo armato di rifugiati tutsi responsabili della guerra civile iniziata nel 1990. Con l’attentato che il 6 aprile ’94 ha ucciso il presidente hutu Habyarimana, il Governo non è più riuscito a controllare l’ira degli hutu contro la minoranza tutsi».
L’avvocato sostiene che il suo cliente non era responsabile della linea editoriale, ma solo dell’amministrazione della radio. «In ogni caso», aggiunge, «ciò che manca in questa sentenza è il nesso di causalità tra l’eventuale comportamento del mezzo d’informazione e gli eventi accaduti». Caldarera punta il dito sulla questione cruciale: «Nel verdetto si è escluso che il mio cliente abbia ucciso qualcuno. Se la sua colpa è di non aver impedito certe trasmissioni, il suo reato semmai è colposo. Ma dal punto di vista giuridico non esiste il genocidio colposo». Questione delicata, gravida di conseguenze giuridiche. «In effetti è una sentenza storica», conferma Flavia Lattanzi. «A Norimberga furono condannati giornalisti, ma per crimini contro l’umanità. Questa è la prima per genocidio. Sarà la Corte d’appello a confermare o no il verdetto».
PROCEDIMENTI DA ACCELERARE
Ora è in corso il processo contro il Governo, che annovera nella terna giudicante Flavia Lattanzi. È un altro dei dibattimenti di primo piano sui fatti del 1994. La professoressa è arrivata ad Arusha pochi mesi fa. Docente di Diritto internazionale all’Università Roma 3, è stata uno dei delegati del Governo italiano alla Corte penale permanente istituita a Roma, col compito di metterne a punto lo statuto e i regolamenti. Ora è uno dei 18 giudici ad litem, cioè aggiunti, che il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha nominato per sveltire la giustizia sui crimini ruandesi. «Era necessario accelerare i processi», dice, «ci sono imputati che attendono il giudizio da 5 o 6 anni».
In effetti, il Tpir era stato accusato di essere una sede giudiziaria poco efficiente e dai costi spropositati. Le critiche erano venute da diversi organismi per la difesa dei diritti umani: in otto anni di attività – avevano rilevato – un’assoluzione, 17 condanne e una sessantina di detenuti sono poca cosa a fronte di un budget annuo di 88 milioni di dollari e uno staff di oltre 870 persone. L’incremento dei giudici dovrebbe consentire quell’accelerazione che sia l’Onu sia gli imputati auspicano.
Il giudice, la professoressa Flavia Lattanzi, fa parte della terna che dovrà emettere la sentenza nel processo Government 1, che riguarda ministri, politici e alti funzionari del Governo in carica durante la guerra civile e la caccia all’uomo dei tutsi e degli hutu moderati.
L’avvocato è Giacomo Barletta Caldarera, del foro di Catania. Nei mesi scorsi ha difeso Jean-Bosco Barayagwiza in un procedimento senza precedenti. La sentenza, emessa il 3 dicembre scorso, farà discutere: si tratta della prima condanna per genocidio comminata a responsabili di mezzi d’informazione per aver incitato la popolazione ai massacri.
Il verdetto riguarda tre ex responsabili di media estremisti ruandesi: Ferdinand Nahimana e Barayagwiza, fondatori della Radio Télévision des Milles Collines (Rtlm); e Hassan Ngeze, ex caporedattore della rivista Kangura. A nessuno di loro è stato contestato l’omicidio, ma per i messaggi di odio razziale propagandati attraverso i media, il giudice sudafricano Navethem Pillay li ha ritenuti colpevoli «di genocidio, incitamento pubblico e diretto a commettere il genocidio e crimini contro l’umanità». Ergastolo per Nahimana e Ngeze, 35 anni di carcere per Barayagwiza. Secondo il nuovo procuratore generale del Tpir, il gambiano Bubacar Jallow, d’ora in poi «chi utilizza i media per identificare un gruppo etnico in vista di distruggerlo dovrà fare i conti con la giustizia».
«Oltre che sbagliato, temo che questo verdetto avrà conseguenze pesanti sulle libertà di stampa e di espressione», dice Caldarera, che ha concentrato gran parte della sua attività all’estero, in materia di Diritto penale internazionale, Criminologia e Diritto penitenziario. È stato, tra l’altro, segretario generale dell’Associazione internazionale di diritto penale a Parigi, da 12 anni è visiting professor alla Public security di Pechino e consulente dell’Unione europea. Dal 1998 si è iscritto all’albo speciale degli avvocati dei tribunali Onu. Così, l’anno seguente, si è trovato a difendere prima Jean-Paul Akayezu (un sindaco condannato all’ergastolo), e poi Barayagwiza.
Quest’ultimo, tuttavia, non ha riconosciuto la legittimità del Tribunale, e quindi non ha nemmeno accettato Caldarera come avvocato d’ufficio. «Non si è mai presentato davanti ai giudici», dice. «L’ho incontrato una sola volta. I limiti difensivi sono stati enormi. Non ho potuto contare su alcun testimone».
La linea di difesa Caldarera l’ha costruita sugli scritti del suo cliente e su documentazione ricavata dall’archivio del Tpir e da altri processi. Ne aveva chiesto l’assoluzione e ha presentato appello. La sentenza considera Barayagwiza e il collega responsabili, in quanto membri del consiglio di amministrazione della radio, «di non aver fatto nulla per impedire la diffusione di messaggi che incitavano ai massacri».
«In Ruanda non vi fu un genocidio», sostiene Caldarera, «bensì un Governo che si è legittimamente difeso contro un aggressore esterno, cioè il gruppo armato di rifugiati tutsi responsabili della guerra civile iniziata nel 1990. Con l’attentato che il 6 aprile ’94 ha ucciso il presidente hutu Habyarimana, il Governo non è più riuscito a controllare l’ira degli hutu contro la minoranza tutsi».
L’avvocato sostiene che il suo cliente non era responsabile della linea editoriale, ma solo dell’amministrazione della radio. «In ogni caso», aggiunge, «ciò che manca in questa sentenza è il nesso di causalità tra l’eventuale comportamento del mezzo d’informazione e gli eventi accaduti». Caldarera punta il dito sulla questione cruciale: «Nel verdetto si è escluso che il mio cliente abbia ucciso qualcuno. Se la sua colpa è di non aver impedito certe trasmissioni, il suo reato semmai è colposo. Ma dal punto di vista giuridico non esiste il genocidio colposo». Questione delicata, gravida di conseguenze giuridiche. «In effetti è una sentenza storica», conferma Flavia Lattanzi. «A Norimberga furono condannati giornalisti, ma per crimini contro l’umanità. Questa è la prima per genocidio. Sarà la Corte d’appello a confermare o no il verdetto».
PROCEDIMENTI DA ACCELERARE
Ora è in corso il processo contro il Governo, che annovera nella terna giudicante Flavia Lattanzi. È un altro dei dibattimenti di primo piano sui fatti del 1994. La professoressa è arrivata ad Arusha pochi mesi fa. Docente di Diritto internazionale all’Università Roma 3, è stata uno dei delegati del Governo italiano alla Corte penale permanente istituita a Roma, col compito di metterne a punto lo statuto e i regolamenti. Ora è uno dei 18 giudici ad litem, cioè aggiunti, che il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha nominato per sveltire la giustizia sui crimini ruandesi. «Era necessario accelerare i processi», dice, «ci sono imputati che attendono il giudizio da 5 o 6 anni».
In effetti, il Tpir era stato accusato di essere una sede giudiziaria poco efficiente e dai costi spropositati. Le critiche erano venute da diversi organismi per la difesa dei diritti umani: in otto anni di attività – avevano rilevato – un’assoluzione, 17 condanne e una sessantina di detenuti sono poca cosa a fronte di un budget annuo di 88 milioni di dollari e uno staff di oltre 870 persone. L’incremento dei giudici dovrebbe consentire quell’accelerazione che sia l’Onu sia gli imputati auspicano.
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