Da Il Messaggero del 30/01/2004
La pace all’anno zero
di Eric Salerno
GERUSALEMME - NON ci si abitua mai alle scene come quella di ieri mattina nel centro di questa città tormentata dalla violenza. Una giornata di sole bagnata di sangue. Sono morti dieci israeliani. Ed è morto un palestinese che era uscito di casa per ammazzare i suoi nemici. E' difficile pensare che il giovane kamikaze o i suoi mandanti non si siano resi ancora conto che la patria che desiderano si allontana sempre di più con le loro azioni, così come appare difficile pensare che la maggioranza degli israeliani sia convinta che il muro, quello di cemento armato come quello innalzato da Sharon contro ogni negoziato «senza la fine della violenza», possa portare alla tranquillità e alla pace. La road map, la formula negoziale caldeggiata da Usa, Ue, Russia e Onu, «è morta», scriveva ieri l'editorialista di un quotidiano israeliano per il quale sopravvive, a questo punto, soltanto la "visione di Bush", ossia la pace con due Stati, uno a fianco all'altro, che purtroppo non è sostenuta da una strategia politica e dalle pressioni che soltanto gli Stati Uniti possono esercitare sulle parti in causa.
Il clima che si respira da una parte e dall'altra del muro di cemento è di disperazione. La violenza è scemata ma senza essere stata rimpiazzata dal negoziato. Due inviati di Bush hanno incontrato i leader delle parti e il premier palestinese si è detto pronto a parlare con Sharon. Chiede risultati e teme, giustamente ammette un esperto israeliano nell'intervista che pubblichiamo all’interno, che verrà fuori soltanto una seduta per i fotografi, pubbliche relazioni. Probabilmente si vedranno comunque per far piacere a Bush ma il presidente ha dato ogni indicazione di volersi allontanare dai guai mediorientali, compresi quelli connessi all'Iraq, quotidiano stillicidio di vite americane, in vista delle elezioni di novembre. Gli basterebbe un po' di calma da queste parti, ed è anche ciò che con l'aiuto dell'Egitto sta cercando di ottenere convincendo i fondamentalisti islamici a deporre le armi.
Mubarak, però, vorrebbe di più. Ha chiesto l'aiuto di Berlusconi, uno dei pochi grandi amici di Sharon, e ha sollecitato il premier israeliano a riprendere il dialogo con Arafat. Il leader palestinese, passato da un errore politico all'altro fino al punto di screditarsi agli occhi di mezzo mondo e anche del suo popolo, è, ripete il presidente egiziano, l'unico che può sottoscrivere un compromesso con Israele. L'Arabia Saudita, per farsi perdonare anche il fatto che molti dei kamikaze dell'11 settembre erano sudditi della monarchia, starebbe per presentare, con Egitto, Giordania e altri paesi moderati, un nuovo piano di pace. Sarà simile a quello accettato due anni fa dal vertice arabo di Beirut e in più chiederebbe a tutti i paesi arabi di accogliere i rifugiati palestinesi. Non più battaglia, dunque, per il loro ritorno in Israele, uno dei nodi più delicati di ogni negoziato per la pace. Gli arabi tutti, secondo questo piano, dovrebbero anche offrire a Israele una pace vera, ambasciatori, frontiere aperte, commercio, ponendo fine "per sempre" al conflitto con lo stato ebraico.
I palestinesi, almeno per ora, non vedono l'idea di buon occhio, ma, se gli arabi l'adottassero, un compromesso sulla falsariga di quanto stabilito dall'iniziativa di pace di Ginevra, presentata lo scorso dicembre, sarebbe sicuramente più facile. La fine del conflitto avrebbe un effetto positivo anche su un altro virus, quello dell'antisemitismo, che si va diffondendo in Europa soprattutto tra gli immigrati musulmani, che vedono in tutti gli ebrei dei sostenitori di quanto possa fare Israele contro i loro fratelli.
E' chiaro che tutto questo, pace e riconciliazione, ha bisogno di leader disposti a uscire dall'intransigenza e ad accettare formule razionali. Arafat non ha avuto il coraggio di finirla con le ambiguità e di sottoscrivere apertamente l'iniziativa di Ginevra, e Sharon parla di disponibilità a fare compromessi, annuncia la chiusura di molti insediamenti, ma nei fatti, così come il presidente palestinese non ha bloccato il terrorismo, il premier israeliano non ha rispettato la sua parte di impegni assunti con la road map e ha fatto di tutto per far fallire il precedente premier Abu Mazen, respingendo anche la sua richiesta di liberare dei prigionieri palestinesi, cosa che ha fatto ieri, invece, nel quadro di uno scambio con i fondamentalisti di Hezbollah, il partito di Dio, libanese. Se è morta la road map, se il negoziato è bloccato, la responsabilità va sicuramente divisa tra Arafat e Sharon.
Il clima che si respira da una parte e dall'altra del muro di cemento è di disperazione. La violenza è scemata ma senza essere stata rimpiazzata dal negoziato. Due inviati di Bush hanno incontrato i leader delle parti e il premier palestinese si è detto pronto a parlare con Sharon. Chiede risultati e teme, giustamente ammette un esperto israeliano nell'intervista che pubblichiamo all’interno, che verrà fuori soltanto una seduta per i fotografi, pubbliche relazioni. Probabilmente si vedranno comunque per far piacere a Bush ma il presidente ha dato ogni indicazione di volersi allontanare dai guai mediorientali, compresi quelli connessi all'Iraq, quotidiano stillicidio di vite americane, in vista delle elezioni di novembre. Gli basterebbe un po' di calma da queste parti, ed è anche ciò che con l'aiuto dell'Egitto sta cercando di ottenere convincendo i fondamentalisti islamici a deporre le armi.
Mubarak, però, vorrebbe di più. Ha chiesto l'aiuto di Berlusconi, uno dei pochi grandi amici di Sharon, e ha sollecitato il premier israeliano a riprendere il dialogo con Arafat. Il leader palestinese, passato da un errore politico all'altro fino al punto di screditarsi agli occhi di mezzo mondo e anche del suo popolo, è, ripete il presidente egiziano, l'unico che può sottoscrivere un compromesso con Israele. L'Arabia Saudita, per farsi perdonare anche il fatto che molti dei kamikaze dell'11 settembre erano sudditi della monarchia, starebbe per presentare, con Egitto, Giordania e altri paesi moderati, un nuovo piano di pace. Sarà simile a quello accettato due anni fa dal vertice arabo di Beirut e in più chiederebbe a tutti i paesi arabi di accogliere i rifugiati palestinesi. Non più battaglia, dunque, per il loro ritorno in Israele, uno dei nodi più delicati di ogni negoziato per la pace. Gli arabi tutti, secondo questo piano, dovrebbero anche offrire a Israele una pace vera, ambasciatori, frontiere aperte, commercio, ponendo fine "per sempre" al conflitto con lo stato ebraico.
I palestinesi, almeno per ora, non vedono l'idea di buon occhio, ma, se gli arabi l'adottassero, un compromesso sulla falsariga di quanto stabilito dall'iniziativa di pace di Ginevra, presentata lo scorso dicembre, sarebbe sicuramente più facile. La fine del conflitto avrebbe un effetto positivo anche su un altro virus, quello dell'antisemitismo, che si va diffondendo in Europa soprattutto tra gli immigrati musulmani, che vedono in tutti gli ebrei dei sostenitori di quanto possa fare Israele contro i loro fratelli.
E' chiaro che tutto questo, pace e riconciliazione, ha bisogno di leader disposti a uscire dall'intransigenza e ad accettare formule razionali. Arafat non ha avuto il coraggio di finirla con le ambiguità e di sottoscrivere apertamente l'iniziativa di Ginevra, e Sharon parla di disponibilità a fare compromessi, annuncia la chiusura di molti insediamenti, ma nei fatti, così come il presidente palestinese non ha bloccato il terrorismo, il premier israeliano non ha rispettato la sua parte di impegni assunti con la road map e ha fatto di tutto per far fallire il precedente premier Abu Mazen, respingendo anche la sua richiesta di liberare dei prigionieri palestinesi, cosa che ha fatto ieri, invece, nel quadro di uno scambio con i fondamentalisti di Hezbollah, il partito di Dio, libanese. Se è morta la road map, se il negoziato è bloccato, la responsabilità va sicuramente divisa tra Arafat e Sharon.