Da La Repubblica del 23/09/2004

Le pedine del terrore

di Vittorio Zucconi

WASHINGTON - DAL pozzo di disperazione nel quale è rinchiuso, l´ostaggio inglese esce con la sua voce e la sua immagine a sparigliare le carte della sola e vera coalizione che ancora combatta sul serio la guerra in Iraq, l´asse Washington-Londra. Semmai ci fosse stato bisogno di un´altra prova della spietata sofisticazione con la quale il nemico combatte, il video di Ken Bigley con la richiesta di grazia fatta non ai boia che lo detengono, ma a Blair, sarebbe la conferma di come essi sappiano giocare sulla scacchiera dell´Occidente, muovendo vite umane e teste come pedine d´avorio. Non avevano neppure provato a spedire video e implorazioni a Washington da parte deigli americani Armstrong e Hensley, sapendo che Bush e quest´amministrazione non avrebbero potuto, neppure se lo avessero voluto, muovere un dito per salvarli.

E per concedere anche soltanto la finzione di un negoziato, come altri governi fanno. Armstrong e Hensley andavano semplicemente e rapidamente sgozzati proprio per creare le premesse, e per dare credibilità, al grido del terzo morituro, dell´inglese e quindi mettere Blair ancora più sotto pressione, in un´Inghilterra dove ormai l´opposizione alla guerra è divenuta plebiscitaria e, discretamente, sono state decise riduzioni del contingente a Bassora, sotto il pretesto della «rotazione».

Chiunque sia il burattinaio che tira i fili delle marionette del terrore in Iraq, se il giordano Zarqawi, l´egiziano al Zawahri, il desaparecido Osama Bin Laden o qualche ricco doppiogiochista che se ne sta al sicuro in una reggia o in un palazzo lontano, egli sa che la sola strada aperta per una vittoria è il progressivo isolamento dell´America e lo sgretolamento di quella improbabile coalizione dei volontari che fin dall´inizio apparve più una copertura politica per Washington che una vera alleanza militare e ideale. Lui ? o loro ? , il grande vecchio sa bene che tutti i governi annunciano sempre solenni che «con i terroristi non si tratta», mentre in privato, dietro le quinte, magari al coperto di operazioni fantasma come quella che portò torte e missili a Khomeini con i complimenti di Reagan, cercano di trattare, quando la spinta dell´opinione pubblica, la pietà e il raccapriccio, o il semplice istinto di sopravvivenza politica, montano.

Soprattutto, come dimostrano gli umori degli Inglesi ormai in piena rivolta contro il sempre più isolato Blair, la pressione cresce quando la fermezza comincia a sembrare gratuita e fine a se stessa, più fatta per salvare la faccia e la coerenza di un governante in bilico, piuttosto che per far avanzare la causa per la quale si combatte. Sacrificare la vita di ostaggi, di civili, di militari, di innocenti abitanti travolti sotto le rovine dei bombardamenti, ormai contati a decine di migliaia, ha senso, e trova il pieno sostegno del pubblico, se i sacrifici misurano i progressi dell´avanzata e l´avvicinarsi dell´obbiettivo finale di vittoria. La strage di soldati sulle spiagge di Normandia, la distruzione di città tedesche, la conquista palmo a palmo di atolli nel Pacifico, gli atti di reciproca barbarie bellica non scossero un´America e un´Inghilterra che sapevano bene per che cosa i loro figli, e i figli degli altri, morivano.

Ma la domanda che comincia a farsi prepotente in Inghilterra e per ora rimane sotto pelle negli Stati Uniti, tenuta a freno dalla campagna propagandistica della guerra al terrore che il terrore sta chiaramente vincendo, è sempre più insidiosa e sempre più abilmente sfruttata dai boia del terrorismo in Iraq: per che cosa sono stati sgozzati gli Armstrong, gli Hensley, i Berg, forse domani i Bigley? Per che cosa sono morti i nostri soldati e civili italiani? La deposizione di Saddam Hussein valeva le almeno 20mila vite loro e nostre bruciate in 19 mesi? Quale causa avanzerebbe il sacrificio delle due giovani donne del volontariato se fossero lasciate al loro destino? Non cedere davanti al ricatto, facendo tacere le ragioni del pietismo e del cuore, ci avvicina alla estirpazione del terrorismo e alla sua resa, come il rifiuto di cedere davanti a Moro, al generale Dozier o ai giudici rapiti dal terrorismo rosso, accelerò la resa dei conti fra i terroristi e quindi la loro fine?

Per questo Bush deve ripetere che siamo «sulla strada giusta», che l´avvenire radioso della libertà, della giustizia e soprattutto della nostra sicurezza è più vicino, perché soltanto così si può spiegare alle famiglie, prima di tutto, che la nostra spietatezza è la risposta giusta alla loro ferocia. Di nuovo, questo è il classico paradosso del Vietnam: quanto più crescono i morti, tanto più difficile diviene per un governo chiudere la partita e rinunciare. Ma insistere significa aumentare i morti e dunque rendere sempre più difficile il riconoscimento che l´impresa è fallita. Il cane di queste guerriglie, come ormai guerriglia è l´Iraq, si morde inesorabilmente la coda.

Forse è questa la chiave per interpretare la cautela, il pudore con il quale i grandi media americani, dalle reti tv ai quotidiani come il Washington Post e il New York Times, a differenza di quelli europei, rifiutano di cadere nel sensazionalismo grandguignolesco della "foto dello sgozzato" sbattuta in prima pagine, che lasciano ai bassifondi di Internet e ai tabloid come il New York Post che ieri sparava la foto del secondo ucciso americano sotto un enorme titolo bastone: "BUTCHERS!" Macellai! Aizzare la rabbia e l´indignazione della gente, quando nulla si può o si vuole fare per mettere fine al macello, significa soltanto "fare il gioco dei beccai", scoperchiare la pentola di domande senza risposta, spiega il più ascoltato osservatore americano di media, Howard Kurtz, credendo scioccamente di mobilitare la gente alla guerra santa. «Dobbiamo chiederci sempre che cosa vogliono quei carnefici quando diffondono i video delle loro oscenità», dice Kurtz e che cosa abbiamo noi da guadagnare mostrandoli, nascosti dietro l´ipocrita pretesto del diritto di cronaca. E quella voce dall´oltretomba del morto che parla, dell´inglese, rammenta da vicino una frase che un ex tenente di Marina tornando dal Vietnam disse davanti al senato americano: «Chi vuole essere l´ultimo a morire in una guerra sbagliata?». Non Bigley l´inglese. Non le due Simone.

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