Da Corriere della Sera del 31/08/2005
Biagi, le accuse al Viminale
di Giovanni Bianconi
Sono passati più di tre anni, ma le parole sfuggite a un ministro dell’Interno su Marco Biagi ammazzato tre mesi prima dalle Brigate rosse pesano ancora. Persino sulla sentenza che ha condannato all’ergastolo i brigatisti individuati come assassini del consulente del ministro del Lavoro, Roberto Maroni.
A parte la mancata protezione di Biagi, quelle parole spiegano perché i giudici hanno deciso di liquidare con cifre poco più che simboliche (5.000 euro in tutto) il «danno morale» lamentato dal governo in seguito all’agguato terroristico. «Va ricordato - è scritto nelle motivazioni delle condanne e dei risarcimenti - che l’allora titolare del dicastero degli Interni si lasciò andare a sprezzanti giudizi verso la vittima, cui il suo successore avrebbe potuto pubblicamente porre riparo. Cosa che non ha ritenuto di dover fare, nonostante l’occasione offertagli da questo processo».
Per quegli «sprezzanti giudizi» l’allora inquilino del Viminale Claudio Scaiola fu costretto a dimettersi, sostituito dall’attuale ministro Giuseppe Pisanu; oggi è di nuovo ministro, delle Attività produttive. I giudici della corte d’assise di Bologna presieduta da Libero Mancuso usano toni gravi nei suoi confronti; così come grave hanno considerato l’assenza al dibattimento di Pisanu, al pari di quella del ministro Maroni: rappresentanti di un governo che pure «utilizzò le straordinarie competenze del docente bolognese, servendosi di quei contributi che lo esposero al rischio della propria vita senza che ne tutelassero adeguatamente l’incolumità». Solo il sottosegretario al Lavoro Sacconi è andato a parlare alla corte del suo «amico fraterno» Marco Biagi «con accenti commossi, rammaricandosi del fatto che non venne realizzato tutto il possibile per tutelarlo». La sua testimonianza, al pari di quella del responsabile del nuovo servizio per l'assegnazione delle scorte, dimostrano per i giudici «l’approssimazione, la superficialità, l’incoerenza mostrate dagli apparati di sicurezza e da chi istituzionalmente ne era alla guida» nella nota vicenda della protezione tolta e non restituita al professor Biagi.
Al processo bolognese contro le nuove Br c’è stata anche un’altra assenza. Motivata però - questa sì - «da comprensibili ragioni di riservatezza del proprio dolore». La signora Marina Biagi, vedova del docente assassinato, «principale delle parte civili», ha preferito evitare la ribalta dell’aula di giustizia, inviando una lettera-testimonianza che la corte ha interamente riprodotto nella sentenza per sottolinearne «la limpidezza e il tenore composto: una lezione di umanità e di civiltà che ha inteso rivolgere a tutti, anche a coloro che le hanno assassinato il marito e hanno tolto il padre ai suoi giovani figli, Francesco e Lorenzo, attendendolo in un agguato mortale sotto il portone di casa».
Secondo i giudici «la povertà del numero dei militanti e il rilievo "strategico" dell’omicidio» ha fatto sì che tutti i brigatisti «dovettero partecipare» alla «macabra riapparizione» del marchio con la stella a cinque punte chiusa nel cerchio, a tre anni dal delitto-fotocopia di Massimo D’Antona. Gli imputati condannati - Nadia Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma, Diana Blefari Melazzi e Simone Boccaccini - insieme a «pochissimi altri sono i depositari di quel progetto di conquista del potere attraverso attacchi al cuore dello Stato che si riducono in periodici assassinii di cittadini onesti e indifesi. Una strategia che da decenni è al di fuori di riferimenti politici, sociali, sindacali persino culturali e storici; è avulsa dalla realtà di questo parere e giustamente, da tempo, non attrae più nessuno, ma persiste nel seminare inutili morti e nel determinare ciclicamente la sconfitta degli assassini e l’altrettanto inutile sacrificio delle loro stesse vite. Gli odierni imputati - concludono i giudici - sono anche testimoni del loro fallimento politico, poiché da anni non emergono reclutamenti o adesioni, e forse neanche interesse alle loro imprese criminali, ma solo defezioni, titubanze, incertezze, disaffezioni».
Una di queste defezioni ha portato al «pentimento» di un’ormai ex brigatista che ha partecipato personalmente all’omicidio Biagi: Cinzia Banelli, «coimputata» condannata a parte nel rito abbreviato (16 anni di pena) che per la corte d’assise «costituisce la voce narrante di questo processo, mai trovata in fallo, che non risulta aver nascosto nulla dopo un comprensibile e difficile percorso di allontanamento dalla militanza brigatista». Di lei, sostengono i giudici, « nessuno può sostenere che sia stata preda di volontà di vendetta che tante volte accompagna l’abiura, e neanche di enfatizzazione accusatorie». Una imputata-testimone la cui «attendibilità appare granitica», insomma; le sue confessioni non sono sospettabili di «subalternità a logiche accusatorie o ad oscure finalità volte ad acquisire immeritati fini premiali». Con queste considerazioni i giudici di Bologna aggiungono un nuovo tassello al confuso mosaico di valutazioni sulla prima pentita delle nuove Brigate rosse. A seconda delle toghe che s’è trovata di fronte la donna diventata madre in carcere ha subito giudizi contrastanti, e la commissione del ministero dell’Interno le ha negato due volte il programma di protezione per i collaboratori di giustizia.
A parte la mancata protezione di Biagi, quelle parole spiegano perché i giudici hanno deciso di liquidare con cifre poco più che simboliche (5.000 euro in tutto) il «danno morale» lamentato dal governo in seguito all’agguato terroristico. «Va ricordato - è scritto nelle motivazioni delle condanne e dei risarcimenti - che l’allora titolare del dicastero degli Interni si lasciò andare a sprezzanti giudizi verso la vittima, cui il suo successore avrebbe potuto pubblicamente porre riparo. Cosa che non ha ritenuto di dover fare, nonostante l’occasione offertagli da questo processo».
Per quegli «sprezzanti giudizi» l’allora inquilino del Viminale Claudio Scaiola fu costretto a dimettersi, sostituito dall’attuale ministro Giuseppe Pisanu; oggi è di nuovo ministro, delle Attività produttive. I giudici della corte d’assise di Bologna presieduta da Libero Mancuso usano toni gravi nei suoi confronti; così come grave hanno considerato l’assenza al dibattimento di Pisanu, al pari di quella del ministro Maroni: rappresentanti di un governo che pure «utilizzò le straordinarie competenze del docente bolognese, servendosi di quei contributi che lo esposero al rischio della propria vita senza che ne tutelassero adeguatamente l’incolumità». Solo il sottosegretario al Lavoro Sacconi è andato a parlare alla corte del suo «amico fraterno» Marco Biagi «con accenti commossi, rammaricandosi del fatto che non venne realizzato tutto il possibile per tutelarlo». La sua testimonianza, al pari di quella del responsabile del nuovo servizio per l'assegnazione delle scorte, dimostrano per i giudici «l’approssimazione, la superficialità, l’incoerenza mostrate dagli apparati di sicurezza e da chi istituzionalmente ne era alla guida» nella nota vicenda della protezione tolta e non restituita al professor Biagi.
Al processo bolognese contro le nuove Br c’è stata anche un’altra assenza. Motivata però - questa sì - «da comprensibili ragioni di riservatezza del proprio dolore». La signora Marina Biagi, vedova del docente assassinato, «principale delle parte civili», ha preferito evitare la ribalta dell’aula di giustizia, inviando una lettera-testimonianza che la corte ha interamente riprodotto nella sentenza per sottolinearne «la limpidezza e il tenore composto: una lezione di umanità e di civiltà che ha inteso rivolgere a tutti, anche a coloro che le hanno assassinato il marito e hanno tolto il padre ai suoi giovani figli, Francesco e Lorenzo, attendendolo in un agguato mortale sotto il portone di casa».
Secondo i giudici «la povertà del numero dei militanti e il rilievo "strategico" dell’omicidio» ha fatto sì che tutti i brigatisti «dovettero partecipare» alla «macabra riapparizione» del marchio con la stella a cinque punte chiusa nel cerchio, a tre anni dal delitto-fotocopia di Massimo D’Antona. Gli imputati condannati - Nadia Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma, Diana Blefari Melazzi e Simone Boccaccini - insieme a «pochissimi altri sono i depositari di quel progetto di conquista del potere attraverso attacchi al cuore dello Stato che si riducono in periodici assassinii di cittadini onesti e indifesi. Una strategia che da decenni è al di fuori di riferimenti politici, sociali, sindacali persino culturali e storici; è avulsa dalla realtà di questo parere e giustamente, da tempo, non attrae più nessuno, ma persiste nel seminare inutili morti e nel determinare ciclicamente la sconfitta degli assassini e l’altrettanto inutile sacrificio delle loro stesse vite. Gli odierni imputati - concludono i giudici - sono anche testimoni del loro fallimento politico, poiché da anni non emergono reclutamenti o adesioni, e forse neanche interesse alle loro imprese criminali, ma solo defezioni, titubanze, incertezze, disaffezioni».
Una di queste defezioni ha portato al «pentimento» di un’ormai ex brigatista che ha partecipato personalmente all’omicidio Biagi: Cinzia Banelli, «coimputata» condannata a parte nel rito abbreviato (16 anni di pena) che per la corte d’assise «costituisce la voce narrante di questo processo, mai trovata in fallo, che non risulta aver nascosto nulla dopo un comprensibile e difficile percorso di allontanamento dalla militanza brigatista». Di lei, sostengono i giudici, « nessuno può sostenere che sia stata preda di volontà di vendetta che tante volte accompagna l’abiura, e neanche di enfatizzazione accusatorie». Una imputata-testimone la cui «attendibilità appare granitica», insomma; le sue confessioni non sono sospettabili di «subalternità a logiche accusatorie o ad oscure finalità volte ad acquisire immeritati fini premiali». Con queste considerazioni i giudici di Bologna aggiungono un nuovo tassello al confuso mosaico di valutazioni sulla prima pentita delle nuove Brigate rosse. A seconda delle toghe che s’è trovata di fronte la donna diventata madre in carcere ha subito giudizi contrastanti, e la commissione del ministero dell’Interno le ha negato due volte il programma di protezione per i collaboratori di giustizia.
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