Da La Stampa del 13/11/2003

Il dibattito politico, che aveva utilizzato l'eufemismo peacekeeping, ora deve fare i conti con la realtà

Fine delle ipocrisie: adesso è guerra

di Filippo Ceccarelli

E adesso nessun eufemismo, nessuna parafrasi edulcorante, nessuna formula consolatoria riuscirà facilmente a nascondere la parola impronunciabile, lo spauracchio linguistico: guerra. Una guerra che coinvolge e insanguina l’Italia. Una guerra che, come tutte le guerre, uccide. Non che sia la prima volta che, nella vicenda storica dell’Italia democratica, militari italiani vengono uccisi nelle zone dove infuriano le operazioni militari, da Kindu, nel lontano ’61, a Mogadiscio. Ma erano episodi che sembravano tenere a distanza lo spettro di una lunga guerra guerreggiata, la sensazione di trovarsi nel cuore di un conflitto lungo e feroce, l’idea che l’Italia non sia soltanto testimone o comprimaria ma che sia in prima fila, anche con il sacrificio dei suoi figli in divisa, di una guerra dagli sviluppi imprevedibili.

Anche per questo, la giornata parlamentare italiana di ieri è sembrata dominata da un sentimento inedito di angoscia. C’è il lutto, ovviamente. Il dolore per i carabinieri uccisi in un attentato terroristico e che chiunque, nella maggioranza e nell’opposizione, sente come italiani trucidati cui rendere omaggio alla memoria. E se si eccettua la dichiarazione di Armando Cossutta, che ha tuonato contro la «guerra coloniale», anche i più irriducibili nemici della partecipazione italiana alle missioni militari in Iraq, hanno fatto capire di voler rimandare all’indomani la polemica più accesa. Lo stesso D’Alema che esclude la possibilità di chiedere il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, ha dato l’immagine di una politica che si trova drammaticamente immersa in una percezione nuova. Come se non si potesse più giocare con le parole, attenuandole e ingentilendole, ed evitando accuratamente di parlare di «italiani in guerra», di una guerra dove si muore e si cade vittime di tragiche imboscate. Persino in Kosovo, che pure è il conflitto dove la partecipazione italiana è stata, non foss’altro che per ragioni geografiche, più impegnativa di altre, la cruda realtà della guerra si è come attutita e camuffata in una impressionante quantità di locuzioni più accettabili per il senso comune. «Intervento umanitario», naturalmente. Ma anche «ingerenza», sempre umanitaria. Oppure impegno, missione. Accanto ai soldati in divisa, comparivano sigle meno marziali come «Missione Arcobaleno». Più che dal «nemico» in carne ed ossa, il soldato che può rappresentare un pericolo sempre in agguato, le immagini che accompagnavano quella guerra erano invase dalla dolente umanità dei profughi (la «profuganza», come la ribattezzò icasticamente lo scrittore Carlo Sgorlon). La parola «guerra» non appariva quasi mai, se non nelle manifestazioni dei pacifisti che protestavano contro i bombardamenti sui civili. Anzi, «guerra» era bandita, cancellata, allontanata come un fantasma fastidioso.

Con la carneficina dell’Iraq ogni attenuazione appare meno credibile. Anche per strappare un voto favorevole del Parlamento, si era molto insistito sul ruolo «umanitario» delle truppe italiane. Anche in Afghanistan, nel cuore di un’emergenza terroristica, e ancora sotto l’effetto choc degli attentati a New York e Washington, è stata usata molto più un’espressione dal suono neutro e meno cruento come peacekeeping che non quella, più convenzionale eppure infinitamente più chiara e netta sul piano descrittivo, che è «guerra». Ora, l’opera di peacekeeping appare come qualcosa di inadeguato, decisamente superato dalla tragedia degli eventi di Nassirya. Il Parlamento italiano, del resto, ha quasi all’unanimità chiesto di sospendere le «polemiche», di attenuare le divisioni, e non solo per un elementare rispetto per il lutto che ha colpito i nostri militari, ma anche per ottenere una pausa, un riordinare le idee visto lo scenario completamente nuovo. Come se, appunto, fosse diventata percezione condivisa e anche questa quasi unanime che l’Italia sia entrata nella dimensione, sinora sottaciuta, della «guerra». Come se quello che accade in Iraq non fosse più appannaggio drammatico di altri, ma diventasse parte integrante della quotidianità politica ed umana di un Paese che si ritrova al fronte. Poi le polemiche divamperanno di nuovo e le divisioni si approfondiranno. Ma saranno polemiche e divisioni con la «guerra» alle spalle. «Guerra». A tutti gli effetti.

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