Da Il Mattino del 13/11/2003

Cinque mesi di missione soft

Massacro inatteso. La città che ha tradito il tricolore amico

di Vittorio Dell'Uva

Sembrava difficile temere ai primi di ottobre, quando «White horse» - il campo del contingente italiano - si animò per lo scambio di consegne tra la brigata Garibaldi e la Sassari, che le bandiere tricolori potessero un giorno ricoprire le tante bare di una camera ardente.

Nassiriya non faceva paura, anche se di tanto in tanto l’attraversava qualche sussulto generato più dalla miseria che dalla guerriglia così difficile da domare in Iraq. L’ostilità degli imam, che in ogni sermone condannano la presenza in Iraq di truppe straniere, si era stemperata da tempo.

Qualche targa sui muri già celebrava il contributo dato dal contingente italiano al recupero delle infrastrutture civili. A sera i bambini si rincorrevano lungo l’Eufrate, nel parco giochi che qualcuno dei nostri ufficiali si era inventato utilizzando mattoni colorati e rottami di ferro.

La casermetta dei carabinieri, non lontana dal centro e dal fiume, un edificio a tre piani che era stata la Camera di Commercio, era considerata presidio della sicurezza piuttosto che simbolo blindato di un’occupazione che tanto irrita gli iracheni, siano o meno nostalgici del passato regime. Nessuno era obbligato a tenersi eccessivamente lontano dalla barriera di sicurezza in cemento.

La polizia di Nassiriya è quella che è, a basso livello di efficienza e va da sè di affidabilità. Non aveva senso lanciare le pietre alle camionette blu dell'Arma, che attraversavano le strade per un lavoro di pattugliamento infinito che si estendeva a tutta l'intera provincia di Dhi Qar, togliendo gli spazi alla microcriminalità. Più di un contributo volontario arrivava ai servizi di intelligence, chiamati a prevenire le infiltrazioni di gruppi armati provenienti presumibilmente dal nord. Dossier riservati sui potenziali nemici più vicini indicano quali sono i capi tribù ancora legati a Saddam. «Contro di noi non è stato tirato un solo colpo di mortaio. Non siamo visti come truppe di occupazione», aveva potuto dire nel suo messaggio di commiato il generale Lops, ricevendo il suo sostituto generale Stanu. Nassiriya non aveva avuto una sola delle pulsioni di Baghdad o del triangolo sunnita trasformatosi per gli americani in una trappola.

Si ripetevano scene già viste su altri scacchieri internazionali su cui gli italiani hanno operato. Per creare «un ambiente sicuro», così come prevede il mandato, si è evitato di mostrare con arroganza le armi e di umiliare la popolazione civile. In silenzio si è consumato il braccio di ferro con i neonati partiti politici orientati a dotarsi di una milizia privata. Fino ad ieri il consenso che altri contingenti in Iraq non hanno ottenuto sembrava una conquista ancora possibile. Gli italiani hanno ridato la luce a tutte le case e stroncato il contrabbando di gas e carburante avvertito dalla popolazione come una intollerabile imposta. Più di una scuola ha riaperto con il contributo dei nostri soldati, attenti comunque a tenere basso il profilo e ad evitare ingerenze.

Con uno sguardo al futuro si è anche pensato di tutelare il passato. Alle porte di Nassirya, sorge Ur la città di Abramo dominata dallo Ziqqurat, terra di conquista di tombaroli che trovano sempre clienti da qualche parte del mondo. I carabinieri sorvegliavano quel sito archeologico dall'alto di torrette e con uno schema che sarà probabilmente riproposto per la sua efficienza in tutto le aree del Paese in cui ci siano «memorie» da salvaguardare.

Un lavoro più oscuro aveva anche evitato che Nassiriya subisse il trauma di operazioni lampo della guerriglia. Più di una retrovia logistica della resistenza era stata scovata con il sequestro di lanciarazzi e di armi leggere. Un centinaio di arresti avevano dimostrato che, se necessario, si poteva ricorrere alla fermezza. Sembrava davvero che l'area del grande pericolo fosse altrove, almeno duecento chilometri più a nord, dove si consuma lo stillicidio quotidiano delle forze di occupazione anglo-americane. Ma la resistenza irachena e le forze che presumibilmente l'hanno affiancata in nome di una lotta più vasta all'Occidente, non fa differenza tra le missioni di pace cui sono chiamati i nostri soldati e il ruolo che altri eserciti hanno.

Il «tradimento» di Nassiriya è davvero giunto inatteso. Il Simic, il centro delle operazioni civili condotte da militari, era stato trasformato nel più grande centro di collocamento dell'intera provincia cui si fa riferimento per ottenere un lavoro sia pure precario. La rimozione del sistema di chiuse, con cui Saddam Hussein aveva deviato il corso dell'Eufrate per impoverire le comunità sciite a lui più ostili, sta per ristabilire un ecosistema che nel tempo dovrebbe rendere nuovamente fertili migliaia di ettari. Il faticoso addestramento dei poliziotti ha rappresentato uno dei primi passi per il trasferimento di poteri.

Le esplosioni e le fiamme che hanno distrutto la casermetta dei carabinieri e tantissime vite indicano che la missione italiana, condotta pur sempre all'ombra degli Stati Uniti, è stata nei fatti incompresa, quali che fossero i passi sulla via della normalizzazione che pure venivano giorno dopo giorno compiuti. Nassirya che, a sua volta ha pagato un tributo di sangue, non è più diversa da altre città su cui incombe il terrore. I suoi fedayn, che fermarono per quattordici giorni all'altezza dei ponti e della stazione ferroviaria l'avanzata dell'esercito americano negli ultimi giorni di marzo, hanno ritrovato e ripercorso il varco da cui erano fuggiti. Lo scopo è cancellare ogni possibile e per loro insidiosissimo feeling tra la popolazione civile e ogni forza armata straniera. Quanti intendono rispondere, sia pure sotto le bandiere dell'Onu, alla chiamata alle armi di Washington sono avvertiti.

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