Da La Stampa del 23/09/2004

Israele e il pericolo fratricida

di Avraham B. Yehoshua

Nelle ultime settimane un nuovo termine sta prendendo piede nella politica israeliana: guerra fratricida, o civile. Le due definizioni non esprimono esattamente lo stesso concetto e vorrei chiarire non solo le loro differenze ma anche il significato e il rilievo che esse possiedono per il popolo ebreo.

La vertenza riguarda naturalmente il piano di ritiro unilaterale del governo israeliano da una parte dei territori palestinesi, comprendente l'evacuazione di 17 insediamenti dalla striscia di Gaza e dalla Samaria settentrionale, in cui vivono all'incirca settemila persone.

Entrambi gli schieramenti, di destra e di sinistra, usano i termini «guerra fratricida» o «guerra civile» a loro discrezione. Circoli governativi, esponenti del centro e della sinistra esprimono il timore che l'estrema destra e i coloni si preparino a una resistenza tanto violenta da trasformarsi in una guerra civile. La destra e i coloni, da parte loro, nonostante promettano a mezza voce che non faranno uso di armi contro i soldati israeliani incaricati di portare a termine lo sgombero, parlano di resistenza passiva ma decisa, di manifestazioni oceaniche che impediranno l'evacuazione e affermano che sfonderanno le barriere dell'esercito ed esorteranno i soldati a rifiutare di obbedire agli ordini. Quindi, per quanto contro la loro volontà, l'evacuazione potrebbe trasformarsi in una guerra fratricida impossibile da evitare, ed è dunque meglio rinunciarvi già da ora.

Innanzi tutto sento il bisogno di chiarire il significato di «guerra fratricida» per il popolo ebreo, legato alla caduta del Tempio e alla perdita di ciò che rimaneva dell'indipendenza giudaica duemila anni fa.

Com'è noto, la grande rivolta dei giudei contro i romani, avvenuta nel 70 dopo Cristo, suscitò profonde controversie tra gli ebrei stessi. Molti di loro vi si opponevano, non credendo, a ragione, che la rivolta avesse possibilità di riuscita. Ma gli zeloti, gruppi di nazionalisti religiosi radicali (kanaim in ebraico, un termine in uso ancora oggi), imposero la rivolta a tutto il popolo e perseguitarono chi vi si opponeva. E così, parallelamente alla lotta contro i romani e all'assedio di Gerusalemme, in città scoppiarono duri scontri tra fazioni diverse, dapprima tra zeloti e moderati e in seguito tra varie correnti degli stessi zeloti.

La perdita dell'indipendenza ebraica è rimasta dunque impressa nella memoria nazionale non tanto come conseguenza diretta del fallimento della rivolta contro Roma ma di una guerra fratricida. «Gerusalemme cadde per un odio superfluo». In altre parole, se i giudei avessero fatto fronte comune forse (anche se è estremamente dubbio) la loro rivolta avrebbe avuto successo e il Tempio e l'indipendenza ebraica si sarebbero preservati.

Da qui il grande timore di una guerra fratricida, in particolar modo quando un nemico straniero è alle porte. E gli ebrei hanno sempre dei nemici, come dimostra la loro storia.

Nei lunghi anni della diaspora non vi furono guerre fratricide. Gli israeliti non godevano di alcun potere né possedevano armi. Erano alla mercé dei gentili, sottomessi al loro governo ma, d'altro canto, anche liberi dal dominio di altri ebrei, contro i quali ovviamente non potevano ribellarsi. Così, proprio per la sua natura, la diaspora impedì scontri violenti tra ebrei e le controversie rimasero su un piano verbale. Ma quando all'incirca 120 anni fa gli ebrei cominciarono a stabilire forme di governo indipendente nella terra d'Israele, la minaccia di una guerra fratricida riprese ad aleggiare.

A merito della storia sionista va detto che nonostante le differenze e gli abissi ideologici, mentali, culturali e religiosi esistenti tra ebrei radunatisi nell'antica Sion da ogni parte del mondo, nessun contrasto politico o ideologico ha mai raggiunto i livelli di violenza di una guerra fratricida. Neppure all'epoca del colonialismo turco e inglese, allorché le istituzioni del movimento sionista non godevano di un'autorità riconosciuta, è mai successo che una particolare fazione si sia rivoltata contro un'altra. E negli ultimi 120 anni, in occasione di feroci controversie in campo politico o economico, solo una ventina di ebrei sono rimasti uccisi per mano di loro connazionali (nei 56 anni di esistenza dello Stato ebraico solo tre ebrei sono stati uccisi da altri ebrei, fra loro il defunto primo ministro Yitzhak Rabin) mentre in nazioni come la Russia, la Grecia, la Spagna, la Finlandia, la Cambogia e altre ancora vi sono state centinaia di migliaia, se non milioni di vittime a seguito di guerre civili.

È vero che all'autocontrollo degli ebrei di Israele ha contribuito anche la minaccia degli arabi, il nemico comune. Ma la storia ci ha già insegnato che non sempre un nemico esterno può impedire lo scoppio di guerre civili. Da ciò si deduce che il freno e l'autocontrollo sviluppatisi nelle generazioni dal trauma della distruzione del Tempio e della perdita dell'indipendenza siano stati un efficace deterrente.

Ora però ci si pone la domanda: cosa avverrà tra qualche mese, quando il governo Sharon darà il via allo smantellamento degli insediamenti ebraici nella striscia di Gaza e nel Nord della Samaria? Il tabù della guerra fratricida sarà violato o resisterà? L'attuale violenza verbale slitterà in scontri con morti e feriti? Non bisogna infatti dimenticare che i coloni israeliani (in gran parte armati) non assomigliano ai loro colleghi francesi in Algeria alla fine degli Anni Cinquanta e agli inizi degli Anni Sessanta. L'esercito e la polizia israeliana si troveranno di fronte a uno schieramento omogeneo da un punto di vista ideologico e religioso. Sharon, pur uomo di destra, non possiede l'autorità politica e morale di De Gaulle. Tanto più che in questo caso il ritiro sarà unilaterale, senza alcun accordo con i palestinesi analogo a quello siglato dalla Francia con il movimento di liberazione algerino (che da parte sua non ha mai avuto rivendicazioni nei confronti della Francia e di Parigi, a differenza di molte organizzazioni palestinesi che aspirano ad annettere lo Stato israeliano a quello palestinese).

Qual è dunque la mia previsione in merito alla possibilità di una guerra civile in Israele? Ammetto che questa è puramente intuitiva, non basata su dati chiari, giacché anche le opinioni dei vari «esperti» sono contrastanti. Personalmente ho la sensazione, e qui spero di non sbagliarmi, che nonostante gli scontri verbali e le manifestazioni imponenti, una guerra vera e propria, con morti e feriti, non avverrà. Gli argini della memoria storica resisteranno.

Non bisogna infatti dimenticare che la sofferenza e lo sterminio del popolo ebreo avvenuto nel secolo scorso hanno raggiunto livelli senza precedenti nella storia umana, ed è difficile immaginare che un colono possa puntare un'arma contro un soldato o un poliziotto con l'intento di ucciderlo o di ferirlo sapendo che quello stesso soldato, o poliziotto, può essere il nipote o il pronipote di una vittima della Shoah, oppure il fratello, il figlio o il parente di un israeliano rimasto ucciso in guerra o in un attentato terroristico.

È vero, la lotta contro l'evacuazione degli insediamenti è una lotta per i confini e per l'identità dello Stato d'Israele. Ma, per quanto possa essere importante, è solo agli inizi e la strada è ancora lunga da percorrere per entrambe le parti.

Non pochi sostenitori della sinistra disprezzano a tal punto i coloni da non essere disposti a definirli «fratelli». Con molta rabbia dicono: non ci avete domandato nulla quando avete deciso di stabilirvi nei territori occupati, quindi non stupitevi se non vi consideriamo nostri fratelli nel giorno dell'evacuazione.

Io sono però convinto che la solidarietà nazionale deve essere preservata a ogni costo. I coloni sono nostri fratelli e la loro sofferenza per l'evacuazione non solo dalle loro case ma anche da ciò che per loro rappresenta l'espressione di una profonda convinzione ideologica deve toccare anche chi, come me, si è sempre opposto al loro modo di vedere. Se vogliamo evitare scontri tra cittadini-fratelli, che in casi come questi seguono una dinamica propria, dobbiamo fare appello alle nostre migliori forze creative: incoraggiare il dialogo tra le parti e mostrare comprensione per il dolore degli evacuati. E questo affinché lo sgombero attuale non venga ricordato come un trauma nazionale tanto pesante da compromettere la futura evacuazione di altre colonie, quando arriverà la pace.

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