Da La Stampa del 12/10/2005
Ex Unione Sovietica, Condoleezza Rice conferma: «cercheremo altri alleati»
Putin riconquista i Khan asiatici, Usa fuori
di Anna Zafesova
Troveremo altri alleati nella lotta al terrorismo, dice Condoleezza Rice, in tournée nell’Asia Centrale ex sovietica. Dall’itinerario è stato escluso l’Uzbekistan, una volta principale partner degli Usa nella regione, ora nella lista nera delle dittature. Il governo di Tashkent «non è assolutamente al passo con quanto succede, i suoi progressi dipenderanno dalla libertà e dalla creatività della sua gente», ha dichiarato il segretario di Stato Usa.
La rottura appare definitiva. Gli uzbeki hanno brutalmente sfrattato gli americani dalla base militare di Karshi-Khanabad, fondamentale per l’operazione Enduring Freedom nel 2001. Condoleezza fa buon viso a cattivo gioco: «Abbiamo molti modi per combattere il terrorismo». Come a dire, possiamo fare a meno di voi e Condi va a omaggiare 900 militari Usa nella kirghiza Manas. Ma nonostante una recente «rivoluzione democratica» assissita da Washington, anche il Kirghizistan non è entusiasta e garantisce la manutenzione della base finché ci sarà «la necessità» di stabilizzare l’Afghanistan.
L’Asia Centrale - matassa strategica di interessi petroliferi e militari tra Iran, Cina e Russia - sembrava passata sotto l’ala di Washington dopo l’11 settembre 2001, quando lo stesso Putin spinse i leader asiatici ad aiutare gli Usa nella guerra ai taleban. All’epoca si parlò di sensazionale apertura del Cremlino verso l’Occidente. Dopo quattro anni, l’iddilio di una co-gestione di una regione esplosiva da parte delle due potenze ex nemiche si è frantumato. L’Uzbekistan di Islam Karimov sotto la pressione di Mosca, ma anche di Pechino, sfratta i marines Usa, mentre a Bishkek i ministri filoamericani vengono emarginati dai filorussi.
Il «grande gioco» riprende, e il ministro degli Esteri russo Serghej Lavrov di fronte alle disavventure di Condoleezza in Asia Centrale dice che gli Usa «non faranno nuovi basi laggiù perché riconoscono i nostri legittimi interessi». Che Mosca ormai interpreta come opposti a quelli americani (ma anche europei) e alla possibilità, per gli ex satelliti, di una «doppia lealtà» si sostituisce un «o con noi, o contro di noi». Ultimatum al quale non ci si può opporre: gli affari di petrolio, le protezioni militari e il commercio passano ancora da Mosca.
A quei Paesi poveri e arretrati gli Usa possono dare molto. Ma c’è qualcosa che non offrono più: la copertura antica del «He’s a son of a bitch, but he’s our son of a bitch», è un figlio di puttana, ma è dei nostri. Usata per decenni con dittatori più che imbarazzanti, viene sostituita dal sogno neo-con della libertà e democrazia che, una volta radicate, garantiscono più sicurezza di un’alleanza per calcolo. Karimov riceveva dagli americani soldi e aiuti, e a Wasghington non importava molto degli oppositori torturati finché con le mani degli uzbeki potevano arginare l’islamismo nella valle di Fergana. Ma in primavera gli Usa hanno cambiato idea denunciando i fatti di Andizhan, dove l’esercito ha massacrato una manifestazione in piazza.
Il colpo definitivo a un’alleanza già fragile. I leader dell’Asia Centrale sono dittatori o autocrati ex comunisti, al potere senza possibilità di alternanza da 15 anni e in procinto di passare il trono a «eredi» di famiglia. La «rivoluzione arancione» in Ucraina, per quanto abbia già perso smalto in scandali, è l’incubo che unisce il Cremlino di Putin e i khan asiatici. Molto più di quanto i dollari di Washington o la paura del fondamentalismo islamico li possano dividere.
La rottura appare definitiva. Gli uzbeki hanno brutalmente sfrattato gli americani dalla base militare di Karshi-Khanabad, fondamentale per l’operazione Enduring Freedom nel 2001. Condoleezza fa buon viso a cattivo gioco: «Abbiamo molti modi per combattere il terrorismo». Come a dire, possiamo fare a meno di voi e Condi va a omaggiare 900 militari Usa nella kirghiza Manas. Ma nonostante una recente «rivoluzione democratica» assissita da Washington, anche il Kirghizistan non è entusiasta e garantisce la manutenzione della base finché ci sarà «la necessità» di stabilizzare l’Afghanistan.
L’Asia Centrale - matassa strategica di interessi petroliferi e militari tra Iran, Cina e Russia - sembrava passata sotto l’ala di Washington dopo l’11 settembre 2001, quando lo stesso Putin spinse i leader asiatici ad aiutare gli Usa nella guerra ai taleban. All’epoca si parlò di sensazionale apertura del Cremlino verso l’Occidente. Dopo quattro anni, l’iddilio di una co-gestione di una regione esplosiva da parte delle due potenze ex nemiche si è frantumato. L’Uzbekistan di Islam Karimov sotto la pressione di Mosca, ma anche di Pechino, sfratta i marines Usa, mentre a Bishkek i ministri filoamericani vengono emarginati dai filorussi.
Il «grande gioco» riprende, e il ministro degli Esteri russo Serghej Lavrov di fronte alle disavventure di Condoleezza in Asia Centrale dice che gli Usa «non faranno nuovi basi laggiù perché riconoscono i nostri legittimi interessi». Che Mosca ormai interpreta come opposti a quelli americani (ma anche europei) e alla possibilità, per gli ex satelliti, di una «doppia lealtà» si sostituisce un «o con noi, o contro di noi». Ultimatum al quale non ci si può opporre: gli affari di petrolio, le protezioni militari e il commercio passano ancora da Mosca.
A quei Paesi poveri e arretrati gli Usa possono dare molto. Ma c’è qualcosa che non offrono più: la copertura antica del «He’s a son of a bitch, but he’s our son of a bitch», è un figlio di puttana, ma è dei nostri. Usata per decenni con dittatori più che imbarazzanti, viene sostituita dal sogno neo-con della libertà e democrazia che, una volta radicate, garantiscono più sicurezza di un’alleanza per calcolo. Karimov riceveva dagli americani soldi e aiuti, e a Wasghington non importava molto degli oppositori torturati finché con le mani degli uzbeki potevano arginare l’islamismo nella valle di Fergana. Ma in primavera gli Usa hanno cambiato idea denunciando i fatti di Andizhan, dove l’esercito ha massacrato una manifestazione in piazza.
Il colpo definitivo a un’alleanza già fragile. I leader dell’Asia Centrale sono dittatori o autocrati ex comunisti, al potere senza possibilità di alternanza da 15 anni e in procinto di passare il trono a «eredi» di famiglia. La «rivoluzione arancione» in Ucraina, per quanto abbia già perso smalto in scandali, è l’incubo che unisce il Cremlino di Putin e i khan asiatici. Molto più di quanto i dollari di Washington o la paura del fondamentalismo islamico li possano dividere.
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